L’attivismo delle donne in Iran non nasce in un vuoto, si iscrive in una lunga scia di attivismo femminile nella regione del nord Africa e dall’Asia sudoccidentale.

Per oltre un secolo, le tappe salienti della storia della regione, colonialismo, decolonizzazione, costruzione di stati indipendenti, rivoluzioni, controrivoluzioni hanno visto le donne scendere in piazza.

Nelle ultime decadi il protagonismo delle donne e la loro partecipazione ai grandi eventi di mobilitazione socio-politica sono apparsi con particolare forza nelle città dell’Africa e dell’Asia.

Nelle sollevazioni arabe del 2010-11, nella rivolta di Gezi Park in Turchia nel 2013, nella rivoluzione in Sudan nel 2019, ma anche in Iraq nel 2019, solo per citare alcuni esempi, le donne hanno giocato un ruolo di primo piano.

Le loro immagini mentre conducono cortei, incitano le folle, vengono represse dalla polizia sono diventate iconiche. La foto della ragazza con il reggiseno blu trascinata a terra dalla polizia al Cairo, quella della studentessa in abito rosso che resiste agli estintori a Istanbul, quella della donna vestita di bianco che incoraggia la resistenza a Khartoum hanno fatto il giro del mondo.

Qualcosa di nuovo

In questi settimane in Iran una nuova tappa della storia dei movimenti delle donne si sta compiendo. Le foto di donne che danzano senza veli davanti al fuoco, che si scontrano con la polizia con i capelli al vento o raccolti in code di cavallo, così come riprese nell’atto di tagliarsi una ciocca sono diventate l’immagine di un popolo in rivolta.

In quei fermo-immagini diventati virali c’è tutta la potenza di corpi che si liberano e resistono. Non è la prima volta che in Iran le donne scendono in piazza, è successo ripetutamente nell’ultimo secolo sia per rivendicare la fine delle discriminazioni di genere sia per partecipare a più ampi movimenti antigovernativi.

Recentemente le abbiamo viste manifestare nelle proteste dell’Onda verde nel 2009 e in quelle del 2019 contro la crisi economica. Ma in queste settimane sta accadendo qualcosa di nuovo.

Sono state le donne a innescare la rivolta, portando al centro dello scontro temi apertamente femministi. La lotta contro l’obbligatorietà del velo, la polizia morale e la discriminazione di genere è non solo il motore dell’insurrezione, ma anche la forza trainante e catalizzatrice di battaglie plurali contro la tirannide, la crisi economica, la corruzione, l’oppressione delle minoranze.

La resistenza alla violenza che subiscono i corpi femminili è al centro di una battaglia politica e valoriale più ampia e largamente partecipata.

Ci sono donne giovani e adulte, ragazze delle scuole, ma anche uomini, insieme danno forma a manifestazioni pacifiche ma pure ad azioni violente dirette. Si tratta di eventi di una tale portata trasformativa che c’è chi parla di una rivoluzione femminista.

Durante le rivolte arabe del 2010-11, malgrado la grande presenza di donne nelle piazze, la voce femminista era stata ridimensionata: mentre materialmente i loro corpi erano al centro dello spazio pubblico specifiche rivendicazioni di genere venivano marginalizzate in nome di obiettivi generali, quali pane, dignità, libertà.

Il cuore della rivolta

Nell’Iran di questi giorni il paradigma è cambiato, la questione della libertà delle donne è centrale ed elemento catalizzatore per altre lotte politiche ed economiche. I diritti delle donne non sono più un’appendice, ma il cuore pulsante della spinta rivoluzionaria che ormai è arrivata a includere una pluralità di temi e di rivendicazioni.

La centralità del tema della libertà delle donne può essere spiegata con due ordini di ragioni.

La prima attiene alla specificità del contesto iraniano che è particolarmente repressivo nei confronti delle donne. Basti pensare che solo in Iran e in Afghanistan il velo è imposto alle donne per legge; e la sua obbligatorietà è la punta dell’iceberg di politiche di genere fortemente discriminatorie.

La seconda ragione attiene alla potente affermazione dei movimenti femministi a livello locale e globale, e alla loro capacità di essere in dialogo gli uni con gli altri.

Nel 2019 la performance del gruppo cileno Las tesis “El violador eres tù” è stata replicata migliaia di volte nelle piazze dell’America Latina, dell’Europa, degli Stati Uniti e anche del mondo arabo.

A Tunisi come a Bogotà le donne hanno danzato, ispirandosi agli scritti di Rita Segato, per denunciare la violenza degli stati verso le donne.

“Donne, vita, libertà” è uno slogan nato nel movimento curdo anni fa e oggi risuona potente nelle piazze dell’Iran e da lì viene rilanciato nelle piazze del mondo intero, incluse quelle di Kabul.

A partire da questa interconnessione delle lotte è possibile spiegare la grande solidarietà internazionale che le proteste in Iran stanno avendo. Certo non si può negare che una parte di questa solidarietà si svolge in chiave apertamente antislamica e islamofobica, e si sviluppa su un versante che non comprende gli obiettivi reali di chi è nelle piazze iraniane e vale a dire la libertà di scelta e la contestazione a un regime liberticida che strumentalizza l’islam.

Un video postato su Fecebook dalla giornalista italo-siriana Asmae Dachan mostra come per tante donne la posta in gioco sia la libertà di scelta.

Davanti a una telecamera, con il volto incorniciato da uno hijab colorato, Asmae Dachan taglia, al posto delle sue ciocche di capelli, pezzetti di carta e si dice solidale con le donne iraniane.

La sua testimonianza fa eco a quella di altre musulmane, come Sumaya Abdel Qader e Marisa Iannucci, che hanno scelto di velarsi e sono allo stesso tempo radicalmente contrarie all’obbligatorietà del velo.

Ciò per cui lottano le donne in Iran, come in altre parti del globo, è la libertà di scelta sui propri corpi. Ed è proprio attorno al concetto di libertà di scelta che i movimenti femministi a livello globale, dall’Iran all’Italia, possono sperimentare forme di solidarietà in cui l’elemento unificante è quello dell’autodeterminazione, senza voler tracciare modelli unici e predefiniti di liberazione.

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