«Quando sono arrivato nella regione delle miniere in Katanga e ho visto con i miei occhi bambini anche di sette, otto anni infilarsi senza alcuna protezione nei cunicoli per portare alla luce un po’ di cobalto e ho visitato le famiglie i cui figli sono morti nei tunnel o rimasti menomati a vita, ho pensato di essere di fronte alla peggiore delle ingiustizie di cui mi fossi mai occupato nei miei 35 anni da avvocato dei diritti umani». È in quel momento, davanti alla desolazione della provincia di Kolwezi, la piccola area della Repubblica Democratica del Congo che fornisce al mondo circa il 70 per cento del cobalto necessario ad auto elettriche e smartphone, che Terry Collingsworth, direttore di International Rights Advocates (Ira), ha deciso di lanciarsi nella sua missione impossibile da eroe romantico.

Una sorta di versione moderna di Davide contro Golia, con una sostanziale differenza, però. Il personaggio biblico dovette affrontare un solo uomo sproporzionatamente più forte di lui. Nel caso di Collingsworth, al contrario, i giganti sono cinque e molto uniti tra loro: Apple, Tesla, Google, Dell e Microsoft.

Schiavitù moderne

«Nel 2018 Siddharth Kara, un noto docente di Harvard esperto in lavoro minorile e schiavitù moderne», racconta Collingsworth, «andò in Katanga assieme al professor Roger-Claude Liwanga, della Emory University di Atlanta, per coordinare una ricerca proprio sullo sfruttamento di uomini e terre per l’estrazione di cobalto.

Rimase profondamente turbato dal livello di ingiustizia e decise di fare qualcosa di più di una ricerca o articoli accademici. Per questo mi contattò, mi propose di aiutarlo a trovare famiglie disposte a una class action per citare in giudizio le grandi compagnie americane che utilizzano la filiera del cobalto nel suo segmento terminale – per batterie ricaricabili di smartphone e auto elettriche - e sono quindi gravemente responsabili dello sfruttamento, il ferimento e la morte di tantissimi bambini».

In memoria di Raphael

A settembre del 2019 Collingsworth, quindi, si ritrova in Katanga con Kara e Liwanga e va a fare visita a una famiglia con una storia tragica quanto paradigmatica. Uno dei figli, Raphael, divenuto quindicenne, viene ritenuto adulto a sufficienza per andare a scavare tunnel e infilarcisi dentro, a poche centinaia di metri da casa sua. In un giorno di aprile del 2018 si trova, assieme a un gruppo di trenta ragazzi anche più piccoli di lui, in una galleria che, come succede spesso, crolla. Bisette, la zia divenuta mamma adottiva di Raphael (i genitori erano morti quando era molto piccolo), saputa la notizia corre nel sito di scavo. Lì, troverà altre mamme disperate in angosciante attesa, ma apprenderà poco dopo che nessuno è sopravissuto.

«Fu come una scintilla di ingiustizia che fece scoppiare un incendio legale. Ci mettemmo in contatto con August Mutamba di Alternatives Plus, un congolese molto impegnato tra le comunità locali dei minatori.

L’esperienza peggiore della vita

In breve August ci organizzò un incontro, entrammo in uno stanzone pieno di bambini gravemente menomati e di madri e padri che avevano perso i loro figli. Fu l’esperienza peggiore della mia vita e credo che da quel dolore trassi la forza per agire». Si mettono al lavoro e trovano altre tredici famiglie, oltre a quella di Bisette, disposte ad andare fino in fondo. Grazie alle loro testimonianze vengono tracciate le miniere in cui erano avvenuti gli incidenti, gestite da due colossi dell'estrazione, la anglo-svizzera Glencore e la cinese Huayou Cobalt. Non essendo statunitensi, però, non potevamo essere coinvolte in una causa.

«Ci concentrammo quindi sulle compagnie americane che attingevano alla stessa filiera e nel dicembre scorso abbiamo depositato i documenti presso la Corte federale del Distretto di Columbia per avviare una class action contro Apple, Microsoft, Dell, Google e Tesla per la loro «complicità nei gravi danni subiti dai loro figli» nelle miniere di Commus e Tilwizembe, dell’area di Mashamba Est, presso il lago Malo.

L’accusa contro i cinque giganti

L’accusa è molto netta: «I bambini non sono solamente costretti a lavorare a tempo pieno in situazioni estremamente rischiose, a spese della loro educazione e del loro futuro, ma restano regolarmente menomati o uccisi a causa dei continui crolli o altri pericoli comuni all’estrazione del cobalto». Le imprese accusate hanno subito fatto fronte comune unendosi contro i querelanti. La notizia della class action, però, ha cominciato a fare il giro del mondo.

I “senza voce”

Collingsworth, 64enne di Cleveland, Ohio, appena laureato alla Duke University School of Law si è dedicato a cause umanitarie in difesa di individui o gruppi ‘senza voce’, occupandosi soprattutto delle situazioni di sfruttamento lavorativo e ambientale “esportate” da multinazionali statunitensi. È lui che denuncia nel 1996 la Union Oil of California (Unocal, successivamente acquisita da Chevron) per l’utilizzo di lavoratori forzati e non pagati dell’etnia Karen in Myanmar, ottenendo, tra lo sbigottimento dei leader dell’azienda che pensavano di continuare indisturbati i loro affari, una clamorosa vittoria: la Unocal è stata costretta a un sontuoso risarcimento e all’immediata adozione di nuove policy. Ha poi messo sotto accusa la Nike per l’utilizzo di lavoro minorile in Indonesia, la Nestlè per lo sfruttamento di bambini in Costa d’Avorio nella raccolta del cacao, e ottenuto l’approvazione al Congresso americano di importanti norme contro lo schiavismo e il lavoro minorile. Nel 1990 fonda l’Ira e sfodera un’intuizione geniale. Riesuma l’Alien Tort Statute, una legge americana approvata nel 1789 e sostanzialmente dimenticata tra i codici polverosi nelle biblioteche, per inchiodare le compagnie statunitensi alle loro responsabilità fuori dai confini. Lo statuto, infatti, nato per «promuovere armonia nelle relazioni internazionali», è ancora vigente e dà alle corti federali giurisdizione su cause intentate da soggetti stranieri contro individui e aziende americane per reati commessi ovunque in violazione delle norme internazionali.

Quattordici famiglie

«Abbiamo 14 famiglie disperate per i loro figli morti o menomati a cui non riescono a dare adeguate cure, abbiamo la testimonianza di esperti di fama internazionale come 

il professor Kara, e soprattutto abbiamo ogni sorta di evidenza di quanto quelle compagnie, anche se non direttamente, utilizzino bambini e facciano finta di non saperlo, anzi sbandierino al mondo i loro codici etici e le loro responsabilità sociali dichiarando di avere policy di controllo ferreo sull’intera filiera», rivendica Collingsworth.

Dietro al marketing di Tesla

Nel suo mirino c'è per esempio la Tesla, una delle principali aziende al mondo di produzione di auto elettriche. Le sue campagne sono tutte improntate al concetto di pulizia del mondo, alla salvaguardia dell’ambiente, allo sviluppo delle società, ma quello che fanno in Congo, secondo l'avvocato di Cleveland, va esattamente in direzione opposta. E per questo Collingsworth si batte perché I consumatori, che acquistano macchine elettriche convinti di fare un favore al mondo, lo sappiano. «Ovviamente le compagnie colpevoli non sono solo quelle americane, ma noi per il momento possiamo occuparci solo di loro», zpiega il direttore dell'Ira, Ho contattato uno studio di avvocati svizzeri per intentare causa alla Glencore e sto studiando anche la Fca, italiana ma, come è noto, in parte anche statunitense».

L’attesa del giudizio

La class action è stata presentata in prima istanza a dicembre del 2019 e poi integrata a maggio 2020. Ad agosto le compagnie hanno risposto: «Non possiamo ritenerci responsabili» e gli avvocati di Ria hanno presentato ulteriore documentazione. «A questo punto», sostiene Collingsworth, «attendiamo la loro contro-risposta a dicembre e, soprattutto, il pronunciamento della corte federale per gennaio. Sono molto fiducioso, credo che otterremo l’autorizzazione a procedere e a quel punto, comunque andrà, sarebbe un successo».

La sua vittoria, in realtà, Collingsworth l'ha già ottenuta. Ha sfidato i giganti della tecnologia e dell’automotive, ha fatto emergere condotte gravemente lesive dei diritti umani e guadagnato i titoli di testate prestigiose in varie parti del mondo, costringendoli ad affrontare la questione e a rispondere alle accuse. E ora che il mirino di cinque delle più grandi aziende del mondo, con stuoli di grandi avvocati pronti a rispondere alle accuse, è calibrato su di lui, ha paura? «No, assolutamente. E anche se ne avessi un po’ sarebbe niente in confronto al terrore che vivono quotidianamente decine di migliaia di bambini e le loro famiglie in Katanga».

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