«Oggi è il momento in cui bisogna saper gettare via vecchi fardelli divenuti ingombranti, tenersi pronti al nuovo che sopraggiunge», scrivevano nel 1941 gli autori del Manifesto di Ventotene.

Dopo la sconfitta del nazifascismo, lo sforzo progressista dovrà volgersi verso il definitivo superamento delle divisione dell’Europa in stati nazionali sovrani e la costruzione di un nuovo organismo federale sovranazionale: «La creazione più grandiosa e più innovatrice sorta da secoli in Europa».

La storia della realizzazione di questa idea comincia ottant’anni fa, nel 1943, con la fondazione a Milano del Movimento federalista europeo. La sua forza si è stemperata nell’immediato dopoguerra, di fronte all’urgenza dei processi di ricostruzione, ma ha continuato ad alimentare il progetto di unificazione degli stati del continente.

Questo progetto ha camminato, al principio, soprattutto sulle gambe dei mercati, ma a partire dal Trattato di Maastricht, che nel 1992 istituisce l’Unione europea, ha progressivamente, e non senza fatica, assunto anche un volto politico.

È in questo snodo storico che cadeva, nel 1993, il cinquantenario della fondazione del Movimento federalista, a cui partecipa anche Carlo Maria Martini. Dopo il 1989, con la caduta dei regimi del blocco sovietico e la fine della Guerra Fredda, sembrava aprirsi una stagione di trionfo incontrastato per il sogno europeo.

Dopo Maastricht sarebbe venuta l’unione monetaria, poi l’allargamento a nuovi paesi, in gran parte ex comunisti. Eppure, proprio all’inizio di questa fase dell’ottimismo si può oggi tornare a guardare anche come all’inizio sotterraneo di una crisi.

Una crisi che nel nuovo millennio produrrà tensioni nuove mettendo in pericolo l’edificio europeo. Il suo sintomo più importante era allora, come minaccia di tornare ad essere oggi, il risorgere del nazionalismo.

La resa dei conti

Nel 1993, il continente appare profondamente diviso, tra una storia di muri caduti e di integrazione che avanza, e un’esplosione nazionalista che dilania e dissolve la ex Jugoslavia, riportando nel cuore dell’Europa quella guerra che sembrava, dopo il 1945, consegnata al passato.

Martini, intervenendo a Milano alle celebrazioni per i cinquant’anni del Movimento, parla di un’«ora storica», scattata all’indomani del 1989, che si è rivelata però un «detonatore dagli effetti imprevedibili», che ci pone di fronte a una sfida.

L’interrogativo, dice, non è «chi vincerà tra est e ovest, tra nord e sud?», bensì: «saremo tutti disposti a rinunciare a vincere, cercando una nuova integrazione che trasformi il conflitto in una gara di mutuo servizio e di accoglienza tra culture diverse, in una sintesi a misura d’uomo e di cittadini, in una grande federazione, patria di tante piccole nazioni e culture?».

Questa, continua, «è la “resa dei conti” che è posta davanti ai cittadini europei: e di questa “resa dei conti”, l’alternativa tra federalismo o nazionalismo è indubbiamente un aspetto importante e nevralgico».

L’alternativa appariva allora particolarmente netta: da una parte, la prosecuzione di un cammino a cui gli eventi dell’89 parevano imprimere una nuova spinta, orientato dagli obiettivi della libertà politica, della sovranità popolare, della pace; dall’altra, il nazionalismo aggressivo e l’odio tribale che risorgevano dalle autocrazie dell’est. L’Europa, dove è sorto il modello dello stato-nazione, poteva diventare la culla di una democrazia sovranazionale, oppure precipitare nuovamente in tempi bui.

Il nuovo nazionalismo

Somiglia, quello di allora, al bivio di fronte a cui ci troviamo oggi, in questo tempo che è stato definito della «policrisi», in cui si sommano e si intrecciano gli effetti di una crisi economica che dura da oltre un decennio, della crisi pandemica che ha sconvolto le vite e le economie di gran parte del mondo, della crisi climatica che incede a passi sempre più rapidi, della crisi energetica legata all’esaurimento delle risorse e alla geopolitica della loro distribuzione, della guerra tornata nel cuore del continente con l’aggressione della Russia all’Ucraina.

Lo scenario è radicalmente mutato rispetto a quello di soli tre decenni fa, eppure le questioni irrisolte, già visibili al momento della nascita dell’Unione, oggi si rivelano cruciali, capaci di decidere il destino di questo progetto politico. E, ancora una volta, pongono l’Europa davanti a una resa dei conti.

Da un lato, la necessità di fronteggiare la pandemia di Covid-19 e i suoi effetti ha portato l’Ue a decisioni di solidarietà economica, con la messa in campo di risorse comuni con il fondo Next Generation Eu, di cui l’Italia è la prima beneficiaria.

Inoltre, la guerra scatenata da Vladimir Putin ha compattato i paesi membri nel sostegno all’Ucraina e riportato all’ordine del giorno il tema della difesa comune. Anche in campo climatico ed energetico, si è rafforzato l’orientamento verso risposte comuni.

Tuttavia, nemmeno la risposta comune ad alcune delle sfide più pressanti del presente ha messo al riparo la «casa» europea dal suo più grande nemico: il nazionalismo che cova al suo interno. All’interno di quel progetto che i padri e le madri fondatrici avevano indicato come la via per superare le tragedie dei nazionalismi del Novecento.

L’Europa agonizza

Quella di oggi somiglia più all’«Europa delle nazioni» della propaganda sovranista che a quella immaginata dai padri e dalle madri fondatrici. È un’Europa priva di coesione e di un centro gravitazionale, «orfana di qualsiasi ambizione di rafforzare i suoi valori, i suoi principi democratici e l’integrazione interna tra gli Stati», scrive Angela Mauro nel suo Europa sovrana (Feltrinelli, 2023).

L’unica scommessa politica che sembra lanciata verso il futuro, quella che difende la primazia delle nazioni, rappresenta nel migliore dei casi una battuta d’arresto sulla strada dell’unione politica, nel peggiore un’inversione di marcia alimentata da una fantasia regressiva.

Però, per usare le parole della filosofa María Zambrano, che risalgono proprio allo stesso torno di tempo in cui veniva composto il Manifesto, «l’Europa non è morta, l’Europa non può morire del tutto; essa agonizza». Si tratta di comprendere da dove può risorgere, come ritrovare la speranza.

Esiste, scrive Zambrano, un «fondo utopico, essenzialmente utopico della storia europea», che nasce da un idealismo caratteristico, dalla tendenza di donne e uomini ad abitare al tempo stesso in due mondi. Da una parte la «casa» reale, l’ambiente che ogni europeo, come ogni essere umano, sente in ogni tempo il bisogno di costruire e abitare; e dall’altra la «città ideale», sempre là, all’orizzonte, irraggiungibile ma capace di motivare la tensione a uscire da sé, a vivere progettando, a gravitare verso l’altrove.

L’utopia politica, come «brama della città impossibile», agisce attraverso due grandi sentimenti: la nostalgia e la speranza. Come nostalgia si traduce nel desiderio di un ritorno al paradiso perduto. Come speranza, invece, anela all’istituzione di un regno a venire di giustizia, felicità, pace, abbondanza.

La forza della speranza

Il sogno di un’Europa unita, come strada per superare la piaga dei nazionalismi, nasce ovviamente dalla forza della speranza. Una speranza nutrita nel tempo più buio, quello delle più grandi catastrofi del secolo scorso.

Nasce inoltre – e questo è un punto su cui ci si sofferma troppo di rado a riflettere – dall’esperienza e dall’immaginazione di donne e uomini confinati, deportati, esuli, rifugiati.

Sembra che anche oggi ad amare l’Europa sia soprattutto chi l’Europa non ce l’ha. Meglio: chi non ce l’ha, e guarda ad essa come a una necessità. L’entusiasmo vive fuori dai suoi confini, dove essa finisce. Vive nei paesi candidati all’adesione all’Unione europea, che si percepiscono isolati o minacciati da nuove politiche di potenza. Vive, soprattutto, tra coloro che fuggono dai propri paesi, o li lasciano perché costretti dalla mancanza di futuro, e guardano a questa terra come a un luogo di speranza.

È insieme a queste donne e questi uomini, con la capacità di coglierne e assumerne lo sguardo, che è possibile contrastare la deriva difensiva ed escludente che è venuto assumendo l’Europa immaginata da Altiero Spinelli, Ursula Hirschmann e altri visionari. Solo così può rinascere quell’utopia capace di farla uscire dalla tirannia della contingenza, dalla paralisi, dalla malattia, e di alimentare una nuova speranza.


Questo articolo è un estratto dal libro L’Europa e la sua ombra, uscito per Bompiani

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