L’Italia sarà il paese ospite d’onore della terza edizione dell’Expo di Hainan che si aprirà l’11 aprile nell’isola del sud della Cina.

Per annusare le prospettive dell’economia cinese dopo tre anni di chiusura, nel capoluogo Haikou è attesa Maria Tripodi, sottosegretario agli affari esteri e alla cooperazione internazionale. Ma interverrà anche Giorgia Meloni, attraverso un videomessaggio registrato.

La presidente del Consiglio ha ereditato la patata bollente del memorandum sulla nuova via della Seta sottoscritto con Pechino dal governo Conte I nel marzo 2019, e dovrà fare attenzione a non compiere passi falsi in un mercato che per le aziende italiane è importante.

Nel 2022 la Cina si è piazzata decima tra i paesi destinatari dell’export italiano, del quale ha attratto il 2,6 per cento del totale, circa 16 miliardi di euro. Il divario tra l’export e l’import è stato, come sempre, molto elevato: 16,4 miliardi di euro contro 57,5 miliardi di euro, per un deficit commerciale di oltre 40 miliardi di euro.

Acquistiamo da produttori cinesi quasi quattro volte il valore di ciò che le aziende italiane vendono ai consumatori cinesi, del cui potere d’acquisto continuano beneficiare molto di più le concorrenti, prima di tutto quelle tedesche e, in seconda battuta, le francesi.

I simboli contano

Il Memorandum d’intesa tra i governi scadrà nel marzo 2024, ma, in assenza di «un preavviso scritto di almeno tre mesi all’altra parte», si rinnova automaticamente.

Dunque se Meloni, come ha dichiarato in campagna elettorale, lo considera tuttora «un grande errore», prima della fine dell’anno dovrà notificare a Pechino che Roma intende cestinarlo.

Intendiamoci: come specificato nel testo, quel documento «non costituisce un accordo internazionale da cui possano derivare diritti ed obblighi di diritto internazionale».

E infatti sia le dichiarazioni di principio sulla cooperazione su trasporti, logistica e infrastrutture tanto care ai cinesi, sia quelle che puntavano a riequilibrare la bilancia commerciale, sono rimaste tali. Eppure Pechino al memorandum ci tiene.

L’Italia è rimasta l’unico membro del G7 ad aver strizzato l’occhio a quella che, quando (nel 2013) venne lanciata, rappresentava la principale iniziativa di politica estera della Cina di Xi Jinping, da allora fortemente ridimensionata e reindirizzata su Africa, medio oriente e sud-est asiatico.

Le porte dell’Italia “aperte” alla Cina – un’idea alla quale lavorarono soprattutto l’ex sottosegretario al Mise, Michele Geraci, l’ex ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e l’ex ambasciatore a Pechino, Ettore Sequi – sono state presto socchiuse, anche perché il governo Draghi, facendo abbondante ricorso alle norme del cosiddetto “golden power” per bloccare acquisizioni cinesi di compagnie italiane in settori reputati “strategici e di interesse nazionale” (in linea con le politiche adottate da altri partner europei), ha ricollocato Roma sull’asse Washington-Bruxelles.

Tuttavia, per i cinesi i simboli sono importanti, e vedersi stracciare il memorandum da un paese tradizionalmente amico verrebbe vissuto come uno sgarbo. È ciò che temono i funzionari italiani che in Cina operano a sostegno del “made in Italy”: che, in una fase in cui è atteso un rimbalzo dei consumi, un affaire memorandum possa in qualche modo ripercuotersi sulle attività delle imprese italiane.

Via dalla Cina?

Che la leadership di Pechino ha a cuore il memorandum l’ha fatto capire anche il direttore della commissione affari esteri del partito comunista cinese, Wang Yi, che il 16 febbraio scorso ha incontrato a Roma Antonio Tajani.

Al ministro degli Esteri Wang ha promesso che «la Cina è pronta a importare più prodotti di qualità dall’Italia, a sostenere le aziende italiane nell’espansione della loro quota nel mercato cinese».

Tajani ha auspicato un riequilibrio della bilancia commerciale e confermato la volontà di riprendere il dialogo bilaterale, nel quadro di un più ampio rilancio del rapporto Ue-Cina, sia in campo economico-commerciale sia in materia di diritti umani, definiti un «tema prioritario nell’agenda di politica estera dell’Italia».

Nella maggioranza però c’è chi sembra pensarla diversamente da Tajani. Il senatore di Fratelli d’Italia ed ex ambasciatore negli Stati Uniti, Giuliomaria Terzi di Sant’Agata, molto ascoltato da Meloni, ha ricordato in una recente intervista a il Giornale, che «c’è un detto che gira negli ambienti economici occidentali: “Dove vuoi investire? Ovunque ma non in Cina”».

Il giorno dopo il faccia a faccia con Tajani, Wang ha incontrato il presidente Mattarella e gli ha rivolto l’invito di Xi Jinping a visitare la Cina.

Per Pechino l’Italia è importante, perché è la seconda manifattura continentale, nonché paese fondatore di quell’Unione Europea con la quale la Cina aspira a rilanciare i rapporti, nel tentativo di convincere Bruxelles a non assecondare il containment anti cinese di Washington.

È chiaro però che le relazioni politiche tra Italia e Cina si sono raffreddate col governo Draghi, rispetto al quale – su questo tema – Meloni agisce in continuità, soprattutto perché il presidente del Consiglio mira ad accreditare se stessa e il suo partito come iper-atlantisti agli occhi di Washington.

E proprio in questa direzione può essere letta anche la nomina, l’altro ieri, del ministro plenipotenziario Massimo Ambrosetti, che sostituirà alla guida della rappresentanza diplomatica di Pechino l’ambasciatore Luca Ferrari.

Ambrosetti, che negli anni Novanta ha lavorato presso l’ufficio commerciale della stessa ambasciata, tra il 1999 e il 2000 ha lavorato a Bruxelles come capo dello staff dell’ufficio italiano per la Nato. E, dal 2006, è stato primo consigliere dell’ambasciata italiana a Washington.

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