Le tensioni internazionali originate dall’invasione russa dell’Ucraina tornano a scaricarsi nel limbo dannato del Kosovo in cui cova da anni il seme della discordia tra Russia e occidente, divise dalla campagna di attacchi aerei avviata dalla Nato nel 1999 contro la Jugoslavia per fermare la pulizia etnica dei serbi in Kosovo. Un’operazione avvenuta senza l’avvallo dell’Onu per via dell’opposizione di Russia e Cina, tra le principali potenze che tuttora non riconoscono l’indipendenza del Kosovo, dichiarata in via unilaterale nel 2008.

La crisi delle targhe

La scintilla che ha fatto scoppiare l’ultimo degli incendi si inscrive nella crisi delle targhe, che ciclicamente torna ad alzare il livello di scontro tra Pristina e Belgrado. Oggetto del contendere è la nuova normativa sull’obbligo di reimmatricolazione delle auto con targa serba che ne impone la sostituzione con quella kosovara recante il simbolo Rks (Repubblica del Kosovo).

La normativa, disposta da Pristina ed entrata in vigore all’inizio del mese, fissa al 21 aprile dell’anno prossimo il termine ultimo entro cui completare il processo per il cambio di targa e prevede una serie di tappe intermedie, che vanno dall’ammonimento alle multe all’utilizzo di targhe di prova per i serbi in Kosovo che non hanno provveduto al cambio.

La mossa di Pristina ha scatenato la reazione della Lista srpska, principale partito di riferimento dei serbo-kosovari, eterodiretto da Belgrado, che ha annunciato le dimissioni di politici, giudici, personale amministrativo, poliziotti di etnia serba da tutte le istituzioni del Kosovo.

Una decisione senza precedenti che ha riacceso la tensione tra Pristina e Belgrado, con la prima pronta a dispiegare le forze speciali di polizia nella parte settentrionale del paese, a maggioranza serba, e la seconda che ha schierato le truppe al confine con il Kosovo.

Accordi falliti

Per capire i motivi di questa crisi, occorre riavvolgere il nastro al 2013, anno della firma degli accordi di Bruxelles sulla normalizzazione delle relazioni tra Serbia e Kosovo. L’intesa aveva consentito a Belgrado di avanzare nel processo di adesione all’Ue, aprendole la porta dei negoziati.

Gli accordi però sono rimasti in parte lettera morta. Il punto più controverso riguarda l’istituzione dell’associazione dei comuni a maggioranza serba in Kosovo. Pristina teme che la creazione di un tale ente possa essere il cavallo di Troia dei serbi per paralizzare lo stato.

Lo spettro agitato è quello della Republika Srpska, una delle due entità della Bosnia ed Erzegovina, a maggioranza serba, che di fatto impedisce lo sviluppo unitario del paese. Belgrado chiede invece da tempo il rispetto degli impegni presi da Pristina sotto l’egida dell’Ue.

A questo punto le strade sono due: superare gli accordi di Bruxelles o rispettarli punto per punto. Esclusa la seconda, non rimane che la prima. Ci prova l’ex presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha un obiettivo: arginare l’espansione di Pechino nella regione.

Durante il suo mandato inizia a prendere corpo l’idea di uno scambio di territori tra i due paesi su base etnica: il Kosovo del nord sarebbe andato alla Serbia, la valle di Presevo, regione della Serbia a maggioranza albanese, sarebbe stata annessa al Kosovo. È uno tsunami.

Le voci che si rincorrono su questa proposta, sostenuta dall’allora capo della diplomazia europea, Federica Mogherini, bastano a far tremare l’intera regione. Il motivo è semplice: ridisegnare i confini dei Balcani su linee etniche riproduce l’idea nazionalista che più volte nella storia aveva insanguinato i territori dell’ex Jugoslavia.

Il timore è quello di scoperchiare il vaso di Pandora delle recriminazioni etniche in Bosnia ed Erzegovina e Macedonia del Nord, in particolare. È soprattutto l’ex cancelliera tedesca, Angela Merkel, ad evitare il disastro. La pax americana suggerita da Trump si tradurrà in un accordicchio che tiene fuori il progetto di partizione e che serve per lo più al tycoon, a corto di successi sul piano internazionale, nell’infuocata campagna elettorale per le presidenziali.

Vuoto diplomatico

Nel vuoto dell’azione diplomatica di Bruxelles e Washington nei Balcani si sono insinuati nel tempo diversi attori: Cina, Russia, ma anche Turchia e monarchie del Golfo, ciascuno con la propria strategia fatta di soldi, armi, credi religiosi e con la pandemia anche di mascherine e vaccini. Un quadro composito e destabilizzante proliferato all’ombra del torpore geopolitico dell’occidente, svegliatosi di colpo il 24 febbraio.

All’indomani dell’invasione dell’Ucraina Ue, Usa e Nato cercano di blindare i Balcani: aprire un secondo fronte in Europa è un rischio che va scongiurato con tutti i mezzi. Ma resuscitare un processo politico di riconciliazione nella regione dopo anni di stallo è impresa complicata, a volte controproducente.

Sul piano politico, l’Ue ricorre soprattutto allo strumento di politica estera che finora si è rivelato il più efficace: l’allargamento. Bruxelles avvia i negoziati di adesione all’Ue con Albania e Macedonia del Nord e propone il riconoscimento della Bosnia ed Erzegovina come paese candidato.

In parallelo, si snodano altre iniziative nei punti più deboli della regione: introdurre delle modifiche al sistema istituzionale della Bosnia ed Erzegovina, imprigionato da un meccanismo di veti incrociati, e ricomporre la controversia tra Serbia e Kosovo, facendo ripartire un dialogo spezzato.

La proposta franco-tedesca

Ad agitare Belgrado e Pristina è in particolare la proposta franco-tedesca, sostenuta dall’Ue, intorno a cui ruotano i negoziati. Il piano, di cui si conoscono pochi dettagli, ricalca in grandi linee l’accordo del 1972 tra le due Germanie, sottoscritto in piena guerra fredda, che non prevede un riconoscimento ufficiale, ma un insieme di intese che regolano i rapporti tra i due stati.

Le turbolenze cui assistiamo non solo in Kosovo, ma in quasi tutti i paesi dei Balcani, non sono che la punta dell’iceberg del tentativo di creare un nuovo e più stabile equilibrio nella regione che abbia l’effetto di contenere soprattutto l’azione di Cina e Russia.

L’esito quindi non può che passare anche dalla reazione di Mosca e Pechino, un’incognita su cui pesa l’andamento della guerra in Ucraina. Il Cremlino potrebbe optare per l’apertura di un secondo fronte, una mossa suicida che si scontrerebbe con la Nato, presente con una missione in Kosovo (Kfor) a guida italiana, o al contrario barattare il riconoscimento delle regioni ucraine annesse alla Russia con quello del Kosovo. Ammesso che il Cremlino abbia ancora la forza di trattare.

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