Khalifa Haftar è stato a Roma per incontrare le autorità italiane. Era chiaro da tempo quanto fosse necessario parlarci: i flussi dalla Libia non provengono più tanto da Tripoli, e dalle cittadine accanto alla capitale, ma da est, cioè dalla zona controllata dal cosiddetto esercito nazionale libico dell’anziano generale. Occorreva capire ciò che Haftar vuole in cambio: questo è stato l’oggetto dei colloqui in Italia.

La Francia di per sé non c’entra nulla: le notizie che legano l’attuale polemica tra Roma e Parigi – scatenate dalle dichiarazioni del ministro dell’Interno francese Gérald Darmanin – alla visita del libico sono prive di fondamento. La dialettica italo-francese è tutta legata a ragioni interne, mentre la Libia resta una ferita aperta per entrambi.

Italia e Francia hanno litigato su ciò che accade a Tripoli e Bengasi fin dal 2011, a iniziare dal fatto che Silvio Berlusconi non era d’accordo con l’attacco voluto da Nicolas Sarkozy. Successivamente Roma e Parigi si sono divise su tutto: Roma ha difeso a lungo l’accordo di Kenitra e il governo sostenuto dall’Onu a Tripoli. Parigi ha preferito l’uomo forte di Bengasi aiutandolo anche con l’intelligence militare.

Tra Eni e Total si è immaginata una competizione che in realtà non è esistita ma nemmeno c’è stato un accordo sulle migrazioni, come sappiamo. Alla fine di tale contenzioso e di un dialogo tra sordi, sia Italia che Francia sono rimaste con un pugno di mosche in Libia: chi comanda ora sono turchi, russi, egiziani, emiratini e le milizie di combattenti stranieri varia origine che sostengono sia l’una che l’altra parte.

Le mosse di Haftar

Forse è giunto il momento per collaborare ma la diffidenza tra i due partner europei è ancora profonda. L’inviato speciale francese sulla Libia, Paul Soler, è appena stato a Roma per concordare una prossima conferenza in Francia sul tema, anche se l’attuale lite tra le due capitali rischia di farla fallire. 

Ciò che è interesse primario del nostro governo è tuttavia comprendere perché Haftar da qualche mese sta favorendo le partenze di barconi verso l’Italia. Anche a causa della distanza (Bengasi è molto più lontana di Tripoli dalla nostre coste), non era mai accaduto prima almeno in queste dimensioni. Certamente bruciano al generale le ripetute sconfitte subite davanti alla capitale del suo paese, che non ha mai potuto conquistare. Sta forse inseguendo altri modi per riemergere? È alla ricerca di nuovi partner? C’è anche la possibilità che la guerra in Sudan abbia cambiato le sue priorità.

Oppure potrebbe darsi che l’alleato russo non sia più tanto disponibile: nel 2017 fu invitato sulla portaerei russa “Ammiraglio Kuznetsov” che transitava al largo della Cirenaica ma da quell’anno molte cose sono cambiate. Forse anche i rapporti con l’Egitto – suo grande sostenitore – non sono più quelli di prima.

Esiste anche la possibilità di una ragione interna: lo spostamento delle milizie straniere che –complici gli scontri a Khartoum – stanno lasciando la Libia per il Sudan. La guerra in Sudan provoca reazioni a lungo raggio. L’esistenza di diversi gruppi armati in Libia inquieta anche la comunità internazionale. In particolare si teme che alcune milizie potrebbero trovare nei fatti di Khartoum un’opportunità per riciclarsi.

A Tripoli alcuni gruppi – utilizzati in passato in funzione anti-Haftar – provengono dalla regione sudanese del Darfur. Secondo informazioni di intelligence costoro hanno iniziato a muoversi verso il confine meridionale libico, diretti in Sudan. Anche dalla parte del signore della guerra di Bengasi si calcola che vi siano quasi 6.000 combattenti sudanesi.

Per anni la Libia è stata la mecca dei contractor e mercenari di ogni tipo: nel paese ci sono abbastanza soldi per pagare qualunque tipo di milizia. Gli stessi turchi avevano inviato a difesa di Tripoli dei siriani originari della zona di Idlib, anche degli ex jihadisti.

Il ruolo delle milizie

Secondo la logica della privatizzazione della guerra in atto ormai dovunque esploda un conflitto, i gruppi armati di foreign fighter stanziati in Libia non hanno atteso la guerra del Sudan per riposizionarsi o trovarsi un nuovo gerente che li paghi bene.

Già nel corso del 2022 una parte dei combattenti sudanesi aveva intavolato trattative con l’esercito regolare di Khartoum per rientrare in patria con la garanzia di essere reintegrati nelle forze armate. Un’altra parte – soprattutto i darfuriani – si è unita al Movimento di liberazione del Sudan (SLM-AW) di Abdulwahid al-Nur, l’unico capo ribelle del Darfur che ha rifiutato qualsiasi processo di pace con le varie autorità che si sono succedute da al Bashi a oggi.

C’è anche il gruppo armato Subu al-Salam, attivo nel sud-est della Libia, alla frontiera tra Sudan, Libia, Ciad ed Egitto. Si tratta di una fazione tribale sudanese che si dichiara salafita ed è stata per lunghi anni fedele alleata di Haftar. Secondo rapporti di Usaid, Subu al-Salam controlla gran parte delle reti di contrabbando di migranti e delle merci di contrabbando. Sembra ora che il gruppo sia orientato a un’alleanza con le Rapid support forces di Hemetti che si batte contro l’esercito di Al Burhan. Se tali gruppi militari rientrassero in patria, diminuirebbe (almeno temporaneamente) la forza e l’impegno dei trafficanti di carne umana dalla Libia.

Una ragione che avrebbe potuto costringere Haftar ad accelerare tale commercio verso l’Italia prima della pausa. Oppure più semplicemente le milizie si disfano dei migranti che hanno prima di partire. Oltre ai sudanesi di vario genere, in Libia ci sono almeno 3.000 combattenti ciadiani che hanno combattuto alternativamente a fianco delle milizie libiche affiliate a Tripoli o a Bengasi. Anche costoro hanno vissuto sulle migrazioni ma ora se ne stanno andando. 

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