Ennesimo rinvio nel processo a Kisnhasa per gli omicidi dell’ambasciatore Luca Attanasio, il carabiniere Vittorio Iacovacci e l’autista del Pam (Programma alimentare mondiale) Mustapha Milambo, avvenuti il 22 febbraio del 2021 in Congo. A metà mattinata della stessa giornata in cui era stata fissata l’ultima udienza, mercoledì 5 aprile, è stata notificato un rinvio senza che venissero fornite chiare motivazioni.

Il processo

Il procedimento vede imputati cinque presunti membri del commando: Shimiyimana Prince Marco, Murwanashaka Mushahara André, Bahati Antoine Kiboko, Amidu Sembinja Babu detto Ombeni Samuel e Issa Seba Nyani. Il sesto, Ikunguhaye Mutaka Amos detto Uwidu Hayi Aspera, è giudicato in contumacia perché latitante.

Il procuratore del tribunale militare di Kinshasa, presso cui si sono succedute le udienze a partire dal 12 ottobre scorso (originariamente sarebbero dovute avvenire a cadenza settimanale ogni mercoledì ma ci sono state moltissime interruzioni), si è pronunciato un mese fa chiedendo che tutti e sei fossero condannati a morte per le accuse di omicidio, associazione a delinquere e detenzione illegale di armi e munizioni da guerra.

Per i giudici congolesi, il commando ha agito per compiere un’esecuzione, non a scopo di rapina o rapimento. Nell’udienza successiva, dopo le arringhe degli avvocati della difesa, c’è stata anche un replica della parte civile nel corso della quale è stato chiesto a nome dello stato italiano di non applicare la pena di morte.

L’ipotesi esecuzione

Da allora, la corte non si è più aggiornata. L’appuntamento fissato per mercoledì 5 aprile, quindi, era particolarmente atteso. E il fatto che non sia stata fornita alcuna motivazione per il rinvio, aggiunge l’ultima ombra a un percorso giudiziario a dir poco accidentato.

Sono molti gli aspetti che suscitano dubbi. Andando a ritroso, per mesi l’impianto accusatorio è ruotato attorno all’ipotesi di un rapimento finito male. Era stata anche messa nero su bianco la cifra del presunto riscatto, anche se su questo aspetto ballavano le cifre, tra la valutazione degli inquirenti congolesi di un milione di dollari e quella della procura di Roma, basata sulla relazione dei Ros in missione a Kinshasa lo scorso luglio, di solamente 50mila dollari.

Ma ora i giudici parlano, improvvisamente, di esecuzione. Per conto di chi? Perché l’ambasciatore di uno stato europeo amico e solidale andava giustiziato? Dietro a un’accusa del genere può esserci un complotto geopolitico così come la fretta di chiudere un procedimento con poche evidenze.

La sentenza

Tra interrogatori al momento dell’arresto svoltisi senza la presenza di legali, ritrattazioni di tutti gli imputati che da un certo punto in poi hanno sempre sostenuto di essere stati sottoposti a torture e di aver confessato sotto minacce o, in un clamoroso caso – Bahati Kiboko – di essere in carcere al momento dell’agguato (circostanza mai del tutto chiarita), si è giunti alla durissima sentenza di inizio marzo senza mai avere neanche lontanamente l’impressione di fondatezza e affidabilità dei procedimenti.

La stessa famiglia dell’ambasciatore, costituitasi parte civile per avere accesso agli atti, una volta ottenute le carte («Non tutte», dice l’avvocato Rocco Curcio, «solo le principali»), anche per ostentare la poca fiducia verso il processo, ha ritirato la costituzione. Nel frattempo ha lanciato una petizione per richiedere che la pena capitale contro gli imputati non venga applicata in alcun modo.

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