Che cosa ci facevano 2.700 tonnellate di nitrato di ammonio stipati negli hangar del porto di Beirut? Pare che fossero stati sequestrati nel 2014 mentre stavano per essere inviati ai ribelli anti Assad, in Siria.

L’esplosione devastatrice che ha distrutto mezza città sarebbe dunque da annoverare tra le conseguenze della guerra di Siria, che ha rischiato varie volte di far implodere il piccolo Libano.

Si tratta di un incidente o di una specie di attentato?

Mentre il consiglio supremo di difesa libanese si è dato cinque giorni per appurare le cause, tutte le ipotesi si fanno strada nelle menti delle persone; ogni teoria viene sussurrata di bocca in bocca o gridata sui social. In medio oriente il complottismo è di casa e ogni sospetto è lecito.

C’è chi punta il dito contro Israele, chi contro Damasco o Teheran, chi ancora contro una delle fazioni armate interne e così via. Ma l’eventualità di una colpevole distrazione o di una sciatteria criminale è anche da mettere in conto: ormai in Libano nessuno si sente più responsabile di nulla.

La crisi multidimensionale (così ci si esprime da quelle parti) è infatti il leitmotiv in un gigantesco gioco a somma zero.

Sul piano politico la vecchia classe dirigente (che è anche quella che rappresenta le numerose comunità etnico-religiose di cui è composto il paese) non si schioda dalle poltrone, che considera una specie di proprietà privata. Ma è anche vero che il Libano ha bisogno di quelle personalità per mantenere la pace interna: la sua composizione pluralista, tra musulmani sunniti e sciiti, cristiani di varie confessioni, drusi ecc. necessita di un dialogo permanente e di continui aggiustamenti che solo vecchi conoscenti, con l’esperienza del bilancino libanese, possono garantire.

C’è poi la piazza dei giovani, soprattutto a Beirut, quelli che ne hanno abbastanza delle antiche liturgie e vorrebbero un Libano moderno e laico. Chiedono che ciascuno sia considerato come cittadino e non parte di una comunità religiosa.

Sono scesi per le strade tante volta dall’estate scorsa, hanno fatto sentire la loro voce contro tutta la leadership ma per lo più si illudono e non sono maggioritari. Il Libano non è solo Beirut, e la vecchia struttura socio-comunitaria è ancora resiliente.

Chi conta davvero sono i partiti armati, primo fra tutti Hezbollah, sciita, ma anche le residue falangi cristiane, i drusi e le milizie sunnite a nord, attorno a Tripoli del Libano. La guerra che aveva distrutto completamente Beirut non si vede più ma non è dimenticata e resta incisa nei cuori impauriti di tutti. L’esplosione di martedì e le distruzioni di mezza città hanno fatto tornare tutti a quei tragici anni in cui la città si era svuotata e nessun palazzo stava più in piedi.

Hezbollah è certamente l’attore più complicato del paese. Alleato con il presidente cristiano Michel Aoun, un ex militare dal carattere forte (lo chiamano “Napolaoun”) che nella sua lunga carriera è stato un po’ in tutti gli schieramenti, il Partito sciita filoiraniano tiene in ostaggio il paese con la sua potente milizia.

Prima gli sciiti erano rappresentati solo da Amal, la formazione politica moderata del presidente del parlamento Nabih Berry (secondo la suddivisione tradizionale libanese, agli sciiti tocca la presidenza del parlamento, mentre ai sunniti il primo ministro e ai cristiani la presidenza della Repubblica). Ma da anni Beirut deve fare in conti anche con Teheran. Nel Libano del sud Hezbollah la fa da padrone assoluto, proprio nella zona del fragilissimo confini con Israele, con il quale si scambia qualche colpo ogni tanto (anche recentemente). Per questo la missione Onu Unifil è schierata in quell’area, operazione di peacekeeping voluta dall’Italia. Spesso lo dimentichiamo ma l’Italia ha in Libano oltre mille militari.

Né le tensioni della politica né la guerra civile (1975-1992) avevano tuttavia realmente intaccato l’asset più importante del Libano: la sua forza finanziaria. Dipendente dall’estero in tutto (cibo, merci, energia), Beirut si era sempre distinta per una moneta stabile, una banca centrale agguerrita, un sistema bancario e borsistico all’avanguardia. Da almeno un anno tutto questo sta crollando sotto i colpi della globalizzazione.

Non c’è più bisogno della capitale libanese come paradiso fiscale nel Mediterraneo: le possibilità si sono moltiplicate, gli stati del Golfo, che una volta erano grandi clienti, fanno per conto loro, ma soprattutto è saltato il sistema della banca centrale che teneva su il valore della lira libanese concedendo tassi troppo vantaggiosi. Una specie di “schema Ponzi”, sperando che i creditori non chiedessero indietro i soldi tutti assieme, come poi è accaduto. Da qui il default, l’iperinflazione e l’intervento del Fondo monetario internazionale.

La questione più delicata è ora quella delle alleanze: gli occidentali (tradizionali amici del Libano) sembrano restii ad aiutare, forse troppo concentrati su loro stessi, troppo divisi. Il ministro degli esteri francese, Jean-Yves Le Drian, è stato due settimane fa in visita “non amichevole”, esternando pubblicamente contro l’attuale classe dirigente e in favore di riforme super restrittive. Un’umiliazione per i libanesi, un colpo per l’immagine del paese.

Anche gli americani si sono ritirati sostenendo che finché c’è Hezbollah non aiuteranno più. Si tratta di un atteggiamento rischioso e non lungimirante che lascia il Libano nelle mani degli stati del Golfo, dell’Iran o della Turchia. Più o meno la stessa cosa che sta accadendo con il Mediterraneo centrale, con la Tunisia o con la Libia. Ritirarsi anche dal Libano dopo aver perso la Siria (e non essere i benvenuti altrove come in Iraq) lascia tutto il Medio Oriente nelle mani di altri soggetti. Una scelta geopoliticamente molto pericolosa.

L’Italia dovrebbe concentrarsi su questo quesito: siamo proprio sicuri che sia giusto lasciar andare alla deriva un paese così strategico, dove ci sono le ultime più importanti minoranze cristiane del medio oriente, per il quale abbiamo speso in passato molte energie e risorse e dove abbiamo ancora una forza di oltre mille uomini impegnati in un’operazione voluta da Roma nel 2006?

La cosa essenziale è elaborare una lucida risposta senza lasciarsi travolgere dagli eventi. Va pensato subito cosa fare. La crisi del Covid-19 (l’altra emergenza libanese oltre quella economica e politica) ci dà la possibilità di intervenire sul piano umanitario e con la cooperazione. Dovremmo farlo in fretta e non solo con aiuti di emergenza. Allo stesso modo dovremmo inviare supporti immediati per lenire le conseguenze dell’immane esplosione, come le distruzioni e i tanti feriti.

Ma questo non può essere che l’inizio. C’è da pensare a come farà il Libano a rifornirsi di ciò che è vitale senza il porto di Beirut, che ora è inagibile.

Dove attraccheranno le navi che trasportano cibo, merci e petrolio?

Il porto di Sidone è controllato da Hezbollah; quello di Tripoli a nord è in zona dove le tensioni tra sunniti e filosiriani è stata molto alta, con combattimenti ancora nel 2019. Gli altri porti sono troppo piccoli. Serve un urgente aiuto logistico per evitare il peggio. Lo stesso si dica per ciò che riguarda l’inquinamento dell’aria da agenti tossici che sta provocando nuovi profughi.

L’Italia, in connessione con la Francia che rappresenta l’altro storico partner del Libano, deve darsi un piano di emergenza e resilienza per Beirut a lunga scadenza. Il nostro interesse è rimanere in quel paese, di cui siamo tra l’altro il primo partner commerciale.

Il Libano ha molti nemici e pochi amici: abbandonarlo ora a sé stesso sarebbe un’imperdonabile errore che pagheremmo certamente.

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