Rapporti diplomatici mai pubblicati prima, testimonianze di linciaggi, massacri, violenze su base religiosa. Da una sequenza di eventi a un progetto.

Soprattutto, la domanda: quanto è implicato l’uomo più potente d’India? Si intitola The Modi Question il documentario in due puntate, bandito in India, prodotto e diffuso dalla Bbc a fine gennaio, che esamina il ruolo del primo ministro Narendra Modi nei disordini avvenuti nello stato occidentale del Gujarat nel 2002.

I fatti

Modi, che punta a un terzo mandato il prossimo anno, era primo ministro dello stato del Gujarat nel febbraio 2002, quando una (presunta) folla musulmana diede fuoco a un treno che trasportava pellegrini hindu di ritorno da Ayodhya, dove avevano manifestato per la costruzione di un tempio hinduista sui resti di una moschea.

Fu l’inizio di uno dei peggiori casi di violenza su base religiosa dell’India indipendente. La rappresaglia durò tre giorni e portò alla morte di migliaia di persone, la maggior parte musulmane, in tutto lo stato.

Accusato di aver istruito la polizia perché non intervenisse, Modi ha sempre negato. È stato prosciolto nel 2012 a seguito di un’inchiesta sotto l’egida della Corte Suprema.

Il documentario

Il primo episodio del documentario si apre sul volto straziato dal dolore di Imran Dawood, cittadino britannico che a fine febbraio 2002, ancora adolescente, aveva deciso di visitare il paese d’origine con gli zii.

Di ritorno da una gita al Taj Mahal il loro taxi (le cui decorazioni rivelavano la religione musulmana dell’autista) venne fermato, il guidatore dato alle fiamme, gli zii uccisi.

Il ragazzo, pur ferito, sopravvisse e avviò un’azione legale, senza risultato. Si scopre ora che un’indagine per ricostruire eventi e responsabilità delle violenze in Gujarat avvenne a ben più alti livelli, ovvero un rapporto del governo inglese (ne parla in video l’ex ministro degli Esteri Jack Straw), che contribuì ad un divieto di fatto di viaggiare nel Regno Unito per Modi, cui seguì nel 2005 la revoca del visto d’ingresso negli Stati Uniti per «gravi violazioni alla libertà religiosa» (in entrambi i casi, la misura cadde con la sua nomina di primo ministro).

«Almeno duemila persone sono state uccise durante le violenze, la stragrande maggioranza erano musulmane. Lo abbiamo descritto come un pogrom, uno sforzo chiaramente guidato politicamente per prendere di mira la comunità musulmana» racconta, con voce contraffatta, un ex diplomatico parte del team inglese di inchiesta.

«Non avrebbero potuto arrivare a tanto senza la complicità del governo statale», continua. Tra i morti, anche un ex deputato musulmano del partito Congress, Ehsan Jafri, la cui morte viene raccontata da un testimone, all’epoca bambino.

Il fatto che Jafri abbia chiesto aiuto telefonando direttamente a Modi, è uno dei temi chiave di anni di indagini, che non sono mai riuscite a provare l’esistenza di quella chiamata.

«Abbiamo raccolto notizie credibili secondo le quali (Modi) ha specificamente ordinato alla polizia di non intervenire, ma i contatti della polizia con cui abbiamo parlato hanno negato. Ci sono rapporti contrastanti sul suo ruolo diretto, ma abbiamo ritenuto che fosse chiaro che è stata una certa cultura dell'impunità a creare un ambiente favorevole alle violenze. E, senza dubbio, proveniva da Modi».

Gli ultimi anni

Il secondo episodio è, se possibile, persino più duro. Si concentra su alcuni dei passaggi più critici, ma anche emblematici degli ultimi anni, seguiti alla nomina di primo ministro: il linciaggio di musulmani accusati di aver consumato carne bovina, l’abrogazione dell’articolo 370 e il cambio dello status speciale di Jammu e Kashmir, l’implementazione del Registro Nazionale dei Cittadini in Assam, le rivolte dei musulmani di Delhi contro l’emendamento alla Legge di Cittadinanza (Caa, che secondo i suoi critici punta a unire religione e cittadinanza indiana), l’attacco agli studenti della storica università Jamia Millia Islamia nella capitale.

In un interessante parallelo, le proteste scoppiate contro la Caa del febbraio 2020 nella capitale sono il simbolico sottofondo del documentario indiano All that Breathes di Shaunak Sen, attualmente candidato agli Oscar, i cui protagonisti sono due fratelli musulmani che vivono non troppo distante dai disordini.

I divieti

Nonostante i divieti, sono diverse le associazioni universitarie e i gruppi di opposizione che hanno mostrato, o tentato di farlo, i video incriminati.

Ma il governo mantiene la linea dura. Spiega Kunal Purohit, giornalista indipendente che da anni si occupa di politica e nazionalismo hindu: «Il documentario della Bbc ha interrotto, almeno temporaneamente, il progetto decennale di Modi per far dimenticare al pubblico nazionale e internazionale la sua colpevolezza nelle rivolte del Gujarat».

La fermezza con cui è stato portato avanti il divieto è significativa «perché Modi considera come la sua base elettorale principale i più giovani, molti dei quali non erano nemmeno nati quando si sono verificate le violenze. Questo documentario espone questi elettori alle rivolte e ad una parte della vita di Modi che è stata deliberatamente cancellata dai media arrendevoli e filogovernativi».

La mossa, sostengono molti, è stata però un boomerang: «Il film ha fatto il giro dei gruppi WhatsApp, Telegram e Signal. Il divieto ha finito per attirare l’attenzione su un passato che Modi ha cercato di far dimenticare. Con ripercussioni internazionali: in un anno in cui l’India si prepara a ospitare la presidenza del G20 definendosi la “Madre della Democrazia”, ​​la risposta maldestra del governo Modi ha costretto il mondo a prestare attenzione alle sue azioni di forza per reprimere dissenso e repressione delle voci critiche al regime».

La Corte suprema indiana ha annunciato che esaminerà le petizioni contro lo stop alla diffusione e la condivisione del documentario, accusato dal BJP di «minare la sovranità e l'integrità dell'India», ma anche di essere portatore di una visione coloniale e anti indiana.

Fa discutere anche la censura attuata da diverse piattaforme social, in particolare Twitter di Elon Musk, che al momento sembra ancora attiva in India: «Ormai da anni, il Bjp di Modi utilizza i social media e le app di messaggistica per diffondere disinformazione e retorica polarizzante piena di odio», ricorda Purohit.

«Questa volta, la gente comune usa proprio questi mezzi per condividere un documentario che il governo Modi desidera disperatamente che gli indiani non vedano. Questo sì che è ironico».

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