«I lobbisti delle armi sono fortissimi. Certo, che hanno provato a contattarmi. Del resto mi risulta che persino il governo francese abbia provato a influenzare gli eletti all’Europarlamento, con tanto di “suggerimenti” su come votare».

Hannah Neumann, 36 anni, europarlamentare verde, è la capofila (la rapporteur) dell’ultimo rapporto del parlamento Ue sull’esportazione di armi. È stato approvato il 17 settembre e dice in sostanza che «non si può aumentare la produzione di armamenti, come sta accadendo nell’Unione europea, senza chiedere pure controlli più serrati e soprattutto trasparenza per quel che riguarda l’esportazione di risorse militari».

L’assemblea dice in altri termini ciò che affermavano secoli fa le colonie ribelli: «No taxation without representation». «Niente soldi senza coinvolgimento nelle decisioni». Il paradosso delle spese militari europee è proprio che vengono sborsati pure soldi del bilancio Ue però manca ancora una vera governance comune, a cominciare dalla trasparenza. In un sistema così, si infilano facilmente le lobby. E infatti, quando si tratta di decidere, l’industria militare risulta iper-rappresentata.

Esportazioni poco trasparenti

Partiamo dalle esportazioni, che sono al cuore di quel rapporto. L’Ue è la più grande fornitrice di armi al mondo dopo gli Usa. Da soli, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna e Italia, i cinque grandi esportatori europei, coprono il 23 percento dell’export globale di armi.

E il trend è in crescita: tra 2003 e 2017, le esportazioni a paesi in conflitto da parte di tutti gli stati europei non superavano l’8 percento. Ora sfiorano il 30. L’Unione è un mercato comune e infatti quando si tratta di negoziare trattati commerciali con paesi terzi ha competenza esclusiva, le armi però non sono una merce qualsiasi. Il concetto stesso di stato è legato al monopolio della forza, perciò finora ogni paese membro si è ritagliato una ampia autonomia.

Un accordo tra i governi, raggiunto su spinta della presidenza francese nel 2008 in forma di “posizione comune del consiglio”, è arrivato a mala pena a individuare alcuni criteri comuni, per l’export di armi. Ma neppure quelli vengono davvero rispettati, fa notare l’Europarlamento nel rapporto. Per esempio, tra i criteri ci sarebbe il divieto di esportare «armi che provochino, aggravino o prolunghino i conflitti» o «esportazioni militari a paesi che usano quel materiale per la repressione o la violazione dei diritti umani».

Elaborando i dati dello Stockholm international peace research institute (Sipri) viene fuori che nel 2018, l’anno di cui si hanno ad oggi i dati completi, il 22 percento dell’export di armi europeo è andato a paesi in conflitto. Colpisce poi vedere quali: all’Egitto è andato ben il 30 percento, alla Turchia il 28.

La Libia è una polveriera e il 47 percento di armi che le arrivano dall’Ue sono di provenienza italiana; l’Italia è pure la grande esportatrice del Pakistan (81 percento) e della Turchia (47 percento), la Francia dell’Egitto (96 percento). Nel 2019 il Consiglio ha dovuto chiedere più sforzo nel controllo dell’export, ma arrivati a settembre 2020 i risultati non si vedono.

Com’è possibile, si chiede l’Europarlamento, che i paesi europei siano grandi esportatori di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti, nonostante quello che succede in Yemen? Eppure una risoluzione del 2018 chiede di non fornir loro armi.

Come mai, nonostante l’accordo preso tra i governi nel 2013 di fermare le esportazioni in Egitto per la repressione in corso nel paese, tante aziende continuano a esportare al Cairo armi e tecnologie di sorveglianza?

La difesa europea e le lobby

Mentre l’Europa fatica a mettere in atto una linea comune su esportazioni e trasparenza, intanto l’industria militare ha sempre più occasioni per interloquire con Bruxelles, orientarne le decisioni, ricevere fondi. In particolare il “Fondo europeo per la difesa” foraggia le grandi compagnie ed è “nato” con loro.

Dopo un primo progetto pilota di finanziamento al settore militare che risale al 2014, nel 2015 l’allora commissaria all’Industria Elżbieta Bieńkowska riunisce un “gruppo di personalità” che possano «suggerire come l’Ue può aiutare la ricerca in campo militare». Questo advisory group è dominato dall’industria.

In confronto alle aziende, la società civile e il no profit sono sottorappresentati: a parte due membri di think tank e qualche politico di alto rango, come l’allora alto rappresentante Ue Federica Mogherini, il resto, e cioè nove membri su sedici, viene da grandi compagnie. Invocano un programma europeo sulla ricerca in ambito militare da tre miliardi e mezzo.

Tra queste aziende ci sono l’italiana Leonardo, c’è Airbus, ci sono il gruppo Frauenhofer, Saab, Indro. Quando il programma europeo inizia a concretizzarsi davvero, con una “azione preparatoria” 2017-2018 per la ricerca da 90 milioni, guarda caso la metà di quel budget finisce proprio a sette compagnie che erano nel gruppo; Leonardo è in testa (circa sei milioni). I fondi per lo sviluppo, che sono ancora maggiori (500 milioni del bilancio comune per 2019 e 2020), finiscono in buona parte a otto aziende dello advisory group, coinvolte in nove progetti su sedici.

Con il passare degli anni cresce l’ammontare del fondo. Parallelamente, cresce il budget dedicato dall’industria militare all’attività lobbistica. Nell’arco di cinque anni, le dieci più grandi aziende belliche europee hanno raddoppiato la quota per il lobbying: per quel che è dato sapere, la cifra è passata da quasi tre milioni ad almeno sei ogni anno.

Pure la fetta di bilancio comune dedicata alla difesa cresce. Per il bilancio 2021-2027, stando all’accordo raggiunto nel Consiglio di luglio, il fondo di difesa sarà di sette miliardi. Ne erano previsti pure di più, ma covid-19 ha costretto a rivedere le priorità. Anche se, come documenta il rapporto di Greenpeace pubblicato in anteprima sul sito di Domani, il rischio è che i soldi tolti tornino all’industria bellica per vie traverse: per dirne una, in vista del Recovery plan, il ministero dello Sviluppo economico classifica la sua richiesta per potenziare la «filiera industriale aerospaziale e della difesa» sotto l’etichetta «industria sostenibile».

Laetitia Sedou di Enaat (la Rete europea contro il commercio di armi) nota che in tutto questo, nella gestione del fondo per la difesa, «mancano sia la trasparenza che un adeguato potere di controllo del parlamento Ue». E qui si torna al punto: “No taxation without representation”.

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