Cartografia: Luca Mazzali / faseduestudio / Appears srl. Dopo il disastro siriano e la rotta afghana i cosiddetti occidentali rischiano di scrivere in Libia il terzo capitolo del loro, e nostro, sommesso declino. Nel paese che dieci anni fa la Nato travolse ora scorrazzano un centinaio di milizie locali e 20mila guerrieri stranieri, tra mercenari a disposizione del generale Haftar (russi, sudanesi, chadiani) e militari turchi con ascari siriani al seguito che difendono il governo di Tripoli.

In attesa delle elezioni

Per consolidare il cessate il fuoco, sloggiare gli invasori e riunificare una Libia di fatto spartita, europei e americani puntano le loro carte residue sulle elezioni parlamentari e presidenziali, al momento previste dall’Onu per il 24 dicembre. Se la soluzione elettorale riuscisse a trasformare i conflitti armati in conflitti politici risolvibili con gli strumenti offerti da una democrazia parlamentare, la Libia pacificata potrebbe rapidamente raddoppiare la produzione di petrolio (dagli attuali 1,2 a 2 milioni di barili al giorno) e così finanziare una ricostruzione che non solo soddisferebbe i voraci appetiti degli attori internazionali richiamati dalle più grandi riserve di idrocarburi del continente, ma addirittura assorbirebbe come manodopera tutti i migranti africani che attualmente premono ai confini dell’Europa. Un gigantesco affare per tutti.

Il problema con questo tipo di scorciatoie è che se mancano le condizioni minime perché le consultazioni siano davvero libere e corrette, il risultato è un boomerang: milizie e cosche entrano in parlamento travestite da partiti e acquisiscono ulteriore potere attraverso la legittimazione e l’occupazione dello stato. In Libia l’esito potrebbe essere catastrofico.

Signore della guerra dei territori orientali, il generale Haftar otterrebbe un ottimo risultato nelle presidenziali, se come sembra decidesse di correre (i candidati dovranno dichiararsi entro novembre). Haftar gode infatti di vantaggi decisivi sui concorrenti: le sue truppe controllerebbero i seggi, gang criminali e salafite coordinate da suo figlio Saddam eliminerebbero gli oppositori. Se un mezzo plebiscito permettesse a lui o a un suo fiduciario di vincere, l’ovest insorgerebbe; se non fosse sufficiente, Haftar resterebbe asserragliato nell’est e rifiuterebbe di porre la sua milizia sotto il comando del presidente eletto.

Ad aggiungere motivi di pessimismo è l’evidente impossibilità di rimpatriare i combattenti stranieri. Putin è disponibile a “ritirare” i suoi mercenari dalla linea del fronte, non dalla Libia, come ha messo in chiaro affondando una risoluzione in Consiglio di sicurezza proposta da Londra. Anche Erdogan può fare spallucce: decidesse pure di rimpatriare i suoi siriani, potrebbe mantenere soldati e droni turchi in Libia, in questo pienamente autorizzato dall’accordo strategico firmato due anni fa da Ankara e dal governo di Tripoli, all’epoca riconosciuto dall’Onu come unico rappresentante legittimo della nazione.

Per garantire alle elezioni un minimo di credibilità occorrerebbe tanto un controllo dei seggi affidato a osservatori Onu quanto l’esclusione di candidati segnalati per crimini di guerra dalla Corte penale internazionale oppure citati nel recente rapporto (per gran parte ancora segreto) redatto dagli investigatori delle Nazioni Unite. Ma Haftar e consimili reagirebbero male e boicotterebbero le elezioni.

Così l’unica preclusione posta finora da alcune capitali riguarda il figlio di Gheddafi, Saif al-Islam, una candidatura gradita a russi e turchi (Saif è indagato dalla Corte penale internazionale, ma altro, e altamente simbolico, è il motivo che lo rende inaccettabile: dopo l’Afghanistan rioccupato dai Talebani, una Libia che a dieci anni dalla guerra Nato torna a un Gheddafi, è prospettiva sufficiente a dare la misura dell’inettitudine occidentale).

Va da sé che un parlamento infestato da trafficanti dell’ovest e assassini seriali dell’est non avrebbe la credibilità e lo slancio per riunificare una Libia oggi tripartita (a est Haftar, a ovest il governo di Tripoli, a sud i Tuareg e i Tebu). Al più riuscirebbe a mettere in scena l’ennesima zombie-democracy, genere assai apprezzato dalla nostra stampa quando lo zombie figura come “filo-occidentale” e garantisce un caos controllato che non ostacola i nostri affari (in quel caso il caos è detto “stabilità”).

Furbamente equidistanti

Eppure anche i nostri affari in Libia non saranno mai al sicuro fin quando la Libia resterà la grande balena morente che attira nel Mediterraneo squali di ogni dimensione, ben più determinati e aggressivi di quanto non sia stata l’Italia finora. Abbiamo subìto nel 2011 con il governo Berlusconi la guerra lanciata in Libia da Sarkozy. Abbiamo appoggiato il governo di Tripoli riconosciuto dall’Onu, ma quando le bande del generale Haftar non si sono avvicinate troppo ai tubi dell’Eni – con il secondo governo Conte nel 2019 – siamo diventati furbamente equidistanti, col risultato di non risultare credibili né presso gli uni né presso gli altri.

Non abbiamo fiatato quando Haftar ha bombardato a ridosso dell’ospedale militare italiano a Misurata. Non abbiamo tentato di tagliare la strada ai turchi quando, profittando della nostra equidistanza, hanno contrattato con Tripoli l’aiuto militare necessario per fermare l’offensiva di Haftar. Questo senza contare il discredito che ci è piovuto addosso a causa dei misfatti di una nostra invenzione, la Guardia costiera libica, e dei lager in cui segrega illegalmente i migranti.

Con il governo Draghi la prospettiva è mutata, cerchiamo di coinvolgere gli svogliati americani e di convincere la Ue che la Libia è anche un suo problema: per questo siamo nella troika che tenta di concordare una prospettiva europea. L’idea è lodevole ma degli altri due partner della troika, il nuovo governo tedesco deve trovare ancora un suo profilo, la Francia pretende un ruolo di capofila non giustificato dai suoi trascorsi (guidò la Nato alla guerra, sostenne Haftar perfino con forniture militari).

Il 12 novembre la troika presiederà con l’Onu la Conferenza di Parigi, un grande raduno di premier e capi di stato che sgombererà la strada alle elezioni libiche, ripete il governo Macron con la sicurezza di quei giocatori di poker tanto più assertivi quanto più a rischio di dover ammettere il bluff.

Quanto al resto dell’Europa, resta per gran parte indifferente. Gli stati orientali straparlano di grandi muraglie che li proteggano dai profughi afghani, e intanto incassano l’impunità per il nuovo metodo varato sul campo da alcune polizie di frontiera: respingono a manganellate, talvolta dopo averli rapinati, i “richiedenti asilo”, ma quando non si ha a disposizione una “Guardia costiera libica” bisogna arrangiarsi in proprio. I manganellatori spesso hanno passamontagna calati sul viso, come per esempio gli agenti croati che appaiono nel video diffuso dal settimanale Spiegel, in una plastica rappresentazione dello stato di diritto “mascherato” che la crisi dei migranti rischia di diffondere in Europa.

In un contesto così compromesso sarebbe ingenuo attendersi miracoli dal governo italiano. Ma almeno, che ci si chiarisca le idee su un paio di punti. Crimini che risultano inaccettabili per le nostre coscienze quando le vittime sono occidentali sono altrettanto inaccettabili per le popolazioni arabe e musulmane quando le vittime sono loro.

In altre parole, se in nome della “stabilità” si tentasse di appioppare ai libici come presidente un gaglioffo, questo finirebbe per produrre l’effetto opposto a quello desiderato: aggraverebbe l’instabilità. Inoltre: nelle relazioni internazionali la furbizia paga, ma fino a un certo punto.

Bene o male siamo riusciti a mantenere in Libia le posizioni di partenza, ma dobbiamo vedercela con una decina di grandi predatori (russi, egiziani, turchi, sauditi, emiratini, francesi, qatarini). In una partita sempre più intrecciata al Grande gioco che si sta sviluppando nel Mediterraneo, occorreranno qualità che finora ci sono mancate: coerenza, visione strategica, audacia.

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