11 settembre 2001. In quella data infausta l’attentato terroristico delle Torri gemelle inaugurava una nuova epoca della politica internazionale. A un decennio di distanza dalla dissoluzione dell’Urss e dalla fine della Guerra fredda quell’evento aveva convinto esperti e policy makers di aver trovato il nuovo paradigma dominante con cui interpretare le relazioni internazionali all’alba del nuovo millennio.

Conflitto identitario

Venuta meno la competizione tra grandi potenze, vieppiù relegata al ricordo anacronistico del passato, nel decennio successivo all’11/9 le dinamiche internazionali sarebbero state in modo maggioritario interpretate adottando lo schema di una conflittualità di tipo identitario. Da qui il successo dello “scontro di civiltà”, paradigma teorico-interpretativo coniato dal politologo Samuel Huntington, tanto celebre quanto erroneamente recepito.

Ancorché deformata e rappresentata nelle sue forme più deteriori, la dimensione identitaria sembrava potersi affermare come il principale agente responsabile del mutamento internazionale. A questa nascente realtà non aderirono solamente potenze revisioniste, attori non statuali e sigle terroristiche, interessati a vario titolo a sfidare lo status quo internazionale; vi si adeguarono infatti gli stessi Stati Uniti, con la global war on terror di Bush jr, in assenza di un nemico convenzionale attraverso cui giustificare il mantenimento della propria egemonia globale.

Fu così che per circa un decennio il medio oriente divenne suo malgrado il nuovo baricentro della politica internazionale. Quella che nel passato era stata la culla delle civiltà antiche e delle tre religioni monoteistiche si era trasformata nel palcoscenico della violenza più bieca a sfondo religioso.

Ad oggi, pur rimanendo maggioritari i casi negativi in cui l’identità viene artatamente sfruttata come motore di alimentazione della conflittualità in medio oriente – Daesh e organizzazioni affini, i conflitti in Siria e Yemen, gli scontri settari in Iraq e Libano, il terrorismo di Hamas, l’estremismo nazional-religioso dei coloni ebrei ecc. – alcuni esempi più recenti dimostrano come sia possibile anche un percorso opposto. Se correttamente maneggiata, infatti, l’identità può rappresentare un ingrediente utile alla causa della pace.

Gli Accordi di Abramo

Un caso studio interessante in tal senso lo forniscono gli Accordi di Abramo, con cui nel 2020 Israele ha normalizzato le relazioni diplomatiche con quattro stati arabi: Bahrain, Emirati Arabi Uniti, Marocco e Sudan.

Si faccia attenzione: al fine di evitare l’etichetta di naif, è utile ribadire che in questa sede non si ragionerà sulle cause, eminentemente di carattere politico-strategico, che hanno portato alla loro firma. Al contrario, accantonando il perché dietro gli accordi, l’obiettivo è quello di comprendere il come, ovvero la logica negoziale che sta dietro tale intesa, la quale vede coinvolto attraverso un utilizzo propositivo il piano dell’identità.

Adottando la così detta Relational identity theory teorizzata dall’accademico americano Daniel Shapiro, è possibile interpretare la strategia negoziale che sta dietro la firma degli Accordi di Abramo come il tentativo di disinnescare quello che Shapiro definisce un Emotionally charged conflict (Ecc). Di cosa si tratta? Tale categoria comprende un’ampia gamma di situazioni conflittuali, dai litigi intra-familiari alle guerre inter-statali, che si creano ogniqualvolta viene lesa l’identità dei soggetti coinvolti.

Si tratta di una categoria calzante dato che, pur non essendo mai stati formalmente in guerra, per decenni la presenza di una latente conflittualità etnico-religiosa legata alla solidarietà araba verso la questione palestinese aveva impedito a questi paesi arabi di stabilire normali rapporti diplomatici con Israele.

L’identità rappresenta una delle tre dimensioni di cui si compone l’interazione umana, a fianco della razionalità e dell’emozionalità. Data la difficile negoziabilità degli Ecc, l’obiettivo non può essere la risoluzione immediata di un’ostilità tra stati, esposta a facili regressioni. Al contrario, mettendo al centro la cooperazione people-to-people, nel lungo periodo va ricercata la dissoluzione del conflitto attraverso una «dinamica d’integrazione» tra rispettive comunità nazionali.

Due sono le direttrici su cui si sostanzia tale dinamica. In primo luogo, attraverso la creazione di «connessioni trasversali» fra popoli. Dall’economia all’energia, dalla medicina al turismo, gli Accordi di Abramo hanno individuato una serie di settori scarsamente caricati di significato identitario su cui imbastire una proficua cooperazione, creando una inconscia mescolanza utile ad avvicinare, non solo in senso metaforico, le rispettive popolazioni. Anche in termini utilitaristici, andando a creare forme concrete di integrazione, l’incentivo a sabotare la nascente cooperazione risulterà decrescente nel lungo periodo.

In secondo luogo, dando seguito al processo di «conversione relazionale». Per far ciò è necessario riconoscere la complessità che connota il concetto stesso di identità, il quale si compone di due parti distinte. Da un lato la core identity, fissa e non negoziabile, definita come «lo spettro di caratteristiche che definisce qualcuno come individuo o gruppo». Dall’altro, la relational identity, definita come «lo spettro delle caratteristiche che definiscono qualcuno in relazione a una particolare persona o gruppo». Quest’ultima è la parte identitaria che può essere negoziata.

La soluzione al problema va quindi ricercata nella creazione di un cerchio identitario più ampio, cioè un minimo comune denominatore che possa ricomprendere le core identity dei soggetti coinvolti. Gli Accordi di Abramo, come indicato dalla scelta lessicale, si inseriscono proprio in questo ragionamento. Volendo risalire alla comune fonte identitaria tra le tre fedi monoteistiche, la nuova sintesi è stata individuata nel comune patriarca Abramo. Vari sono gli esempi concreti in tal senso: dalla costruzione della Casa della famiglia abramitica ad Abu Dhabi, al rilancio del ruolo della minoranza ebraica nel Golfo, sino all’organizzazione da parte israeliana di una simbolica cena di iftar con i rappresentanti dei paesi arabi in occasione del Ramadan.

Il dialogo di papa Francesco

Adottando lo schema teorico-interpretativo presentato, la firma degli Accordi di Abramo potrebbe essere accomunata, nel metodo, a esempi apparentemente molto distanti. È il caso della politica di dialogo interreligioso portata avanti da papa Francesco.

In alcuni passaggi cruciali del suo pontificato emerge, infatti, una simile volontà di dare slancio a un processo di conversione relazionale che possa riconciliare le diverse comunità etnico-religiose del medio oriente. Si pensi alla firma del Documento sulla fratellanza umana, siglato nel 2019 ad Abu Dhabi insieme al grande imam di Al-Azhar. Altri esempi sono la pubblicazione dell’enciclica Fratelli tutti dell’ottobre 2020 e il viaggio in Iraq del marzo 2021, dove è avvenuto lo storico incontro con l’ayatollah Al-Sistani.

Tornando agli Accordi di Abramo, va evidenziata la volontà dell’Egitto di essere coinvolto nelle nuove geometrie regionali, al fine di superare i limiti su cui per decenni si è basata la propria relazione bilaterale con Israele, definibile come una “pace fredda”. Al contrario, questa dinamica non sta al momento coinvolgendo la Giordania, ancora vincolata alla pregiudiziale palestinese, anche per il suo ruolo di custode dei luoghi santi di Gerusalemme.

Ed è proprio la questione palestinese il dossier che merita una menzione finale. La firma degli Accordi di Abramo ha svelato una realtà esistente già da tempo che accademia, politica e opinione pubblica si sono dimostrate refrattarie ad accettare. Va infatti evidenziato come stia venendo meno la storica interdipendenza tra lo stato dei rapporti tra Israele e paesi arabi e il corso del conflitto israelo-palestinese. Allo stesso tempo, tuttavia, è opportuno sostenere che la firma di tali accordi non possa rappresentare un sostituto di un negoziato di pace tra israeliani e palestinesi. Una normalizzazione definitiva dello status di Israele nella regione, infatti, non potrà che passare per una necessaria soluzione del conflitto con i vicini palestinesi.

Dati i fallimenti del passato, e sulla base di quanto esposto finora, sembrerebbe opportuno abbandonare gli schemi negoziali del passato, alla ricerca di nuove soluzioni, pragmatiche nel breve termine e creative nel lungo periodo. Chissà che un utile punto di partenza non possa essere rappresentato anche in questo caso da un processo di conversione relazionale che coinvolga in maniera propositiva l’identità, così da dissolvere, non risolvere, anche quest’ultimo conflitto, apparentemente non negoziabile. Sem, figlio di Noè (Gen. 10:1). Pan-semitismo?

© Riproduzione riservata