Ci siamo assuefatti a troppe parole troppo ripetute finché hanno perso di significato. Trattative, colloqui, piani. Seguite dal complemento di specificazione più svuotato “di pace”.

Da oltre due anni si usano per l'Ucraina. La mediazione di Erdogan, la mediazione di Xi Jinping, le due parti che si devono parlare. Putin che ci sta, Zelensky che ci sta. Poi non ci sta nessuno. Biden che deve parlare con Putin. La Cina che deve parlare con la Russia. E ci parla anche magari senza cavare un ragno dal buco. Il papa che invoca per la millesima volta, anche per la Pasqua di sangue, “fermatevi”. Ma chi ascolta il papa? Quante armate ha il papa?

Ci siamo aggrappati, con sempre meno convinzione, con un l'ottimismo della volontà ormai tramutato in pessimismo cosmico, agli “spiragli”, alle “aperture”, a buone volontà che non ci sono mai state.

Titoli fotocopia sempre uguali del giornali, lanci di telegiornali del giorno prima o forse di un anno fa. L'informazione stancamente registra come un megafono incantato. E dopo l'Ucraina, da sei mesi, Israele e Palestina.

La risposta “legittima” a un grumo di Shoah che muta in carneficina. E Netanyahu e Hamas a Doha, al Cairo, alle Nazioni Unite per interposti mediatori che lasciano intendere di starci e non ci stanno mai, e prima gli ostaggi e prima il cessate il fuoco.

E l'America di Biden, persino l'America di Biden che non riesce a fermare il suo più sicuro alleato. E il pronunciamento solenne alle Nazioni Unite “cessate il fuoco”, un urlo nel deserto, un proclama senza orecchie disposte ad ascoltarlo.

Non esiste l'Onu. Non esiste più da tempo. Non esiste il gendarme del mondo capace di mettere ordine nella giungla. La Vecchia Potenza e la Nuova Potenza entrambe impotenti ad assistere al terribile, irrefrenabile gioco del massacro.

Nella speranza di contenerlo entro i confini, stendere un cordone sanitario attorno a un perimetro circoscritto, nel timore che il gioco al massacro generi una scintilla capace di far divampare un incendio ancora più grande.

Ci fu un tempo, era ieri, in cui il riconoscimento condiviso di un'autorità garante di qualcosa, un ordine mondiale, un codice di convivenza, poteva alfine ridurre alla ragione, circoscrivere, arginare, mettere sotto controllo, inviare dei caschi blu, per una tregua almeno se non proprio per una pace.

Gli ostinati della diplomazia alzano le braccia arresi. Cosa è oggi la diplomazia se non un Attilio Regolo dentro una botte piena di chiodi e fatta rotolare? E cosa è oggi il diritto internazionale se non una tigre di carta, sbranata dal sovranismo dei padroni a casa propria e anche nella casa dei vicini?

Sfinito, dopo averla allontanata per scaramanzia, anche nell'occidente sedicente immune della ex pace perpetua kantiana, circola lo spettro della guerra. E sono altre le parole adesso, riarmo, difesa comune, fronte davanti al nemico, elezioni europee “decisive” per fermare la coalizione di chi ci vorrebbe divisi, dunque aggredibili.

La guerra come un orizzonte concreto mai contemplato da almeno tre generazione in un pianeta dove vanno in frantumi certe conquiste “di civiltà” che sembravano assodate. Mai dare per data una conquista sempre sottoposta all'assalto dell'uomo hobbesiano nascosto dentro di noi.

Chissà se è vero che non è mai troppo tardi. Che si può ancora fermare l'orologio dell'Apocalisse. Se siamo ancora in tempo a smentire la massima di Blaise Pascal: «Non potendo fare che ciò che è giusto fosse forte, abbiamo fatto che ciò che è forte fosse giusto».

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