Radicalizzazione: gli accoltellamenti di Parigi proprio sotto la sede di Charlie Hebdo risvegliano un mostro che solo la paura del Covid aveva sopito. La parabola dei foreign fighters non è finita: malgrado il crollo dell’Isis (peraltro dubbio) persiste nel cuore d’Europa l’eco micidiale della propaganda jihadista che può attrarre menti fragili e ossessionate. Non si tratta di un’assoluta novità sociologica: negli anni Settanta del secolo scorso giovani europei si fecero sedurre dall’ideologia terroristica fino a divenire assassini. In questo caso pesa tutto il senso di estraneità con cui si guarda all’Islam: un apparente alieno della nostra cultura e dei nostri stili di vita.

Musulmani e europei

Da tempo non è più così: decine di milioni di musulmani vivono in Europa, sono europei, sono nati in Europa. Nel corso della seconda metà del Novecento la coabitazione si è rovesciata, passando da Sud a Nord. Progressivamente sono scomparse le isole di cristianità legate alla cultura occidentale dalla sponda sud (si pensi al cosmopolitismo di Alessandria, Istanbul, Algeri e Tunisi, Sarajevo, Beirut ecc.), mentre l’immigrazione verso nord creava isole musulmane in Europa. Le ripetute guerre e crisi del Medio oriente hanno provocato tale ribaltamento.

L’islam è la prima vittima della predicazione radicale in atto ormai dagli anni Ottanta: i reclutatori estremisti si insinuano dentro la società islamica dividendola con una propaganda che separa le famiglie e distrugge le comunità. Si tratta di un contrasto mortale tra chi incarna meglio la religione: i radicali si scagliano contro l’islam tradizionale cercando di “rottamare” le autorità e sostituirle. Ciò provoca danni anche tra i musulmani europei, sia immigrati recenti ma soprattutto seconde e terze generazioni.

Il mesaggio del separatismo

Il messaggio fondamentale di tutti i predicatori radicali, da quelli pietisti e pacifici fino ai più violenti e jihadisti, è lo stesso: non è possibile convivere. Di conseguenza per essere davvero fedele a sé stessa e autentica, la comunità musulmana deve separarsi. Ciò può avvenire in maniera pacifica oppure violenta: sulle tattiche i radicali si dividono. Ci sono i salafiti pietisti o i tabligh che propugnano una separazione pacata, chiedendo di essere lasciati vivere con i loro usi e costumi, con regole sul cibo e vestiti diverse. Non si tratta di un tema specifico solo all’islam: troviamo casi simili in Occidente anche nell’ebraismo e nel cristianesimo ma anche tra i buddisti, i mormoni ecc. Viene chiamata la tentazione del “comunitarismo”, che il presidente Macron preferisce definire «separatismo». Un problema grave per la cultura giuridica occidentale in cui la definizione dei diritti riguarda l’individuo e non la comunità, anche se col tempo alcuni diritti di tipo comunitario sono stati introdotti nella legislazione, come ad esempio la difesa delle particolarità etnico-culturali o linguistiche.

Poi ci sono i violenti. Non importa se si tratti di gruppi di tendenza al Qaeda adepti del terrorismo molecolare oppure di tipo Isis che aspirano a convertire tutta la popolazione, oppure infine di tipo jihad islamica e così via. Ciò che conta è che malgrado le sconfitte subite sul terreno, l’attrattiva per il jihad sembra persistere. Non siamo più alle migliaia di ragazzi e ragazze che lasciarono l’Europa per combattere in Siria, una vicenda tutta da scrivere con molti testimoni ancora vivi. Tuttavia ancora esiste una frangia violenta che si lascia aspirare in avventure sanguinarie del tipo “lupi solitari”, come abbiamo visto spesso in Gran Bretagna e Francia e come i fatti di Parigi riportano alla ribalta.

Il più efficace degli antagonismi

Si tratta di un fenomeno più profondo di ciò che si pensa e durevole nel tempo. Il radicalismo islamico, in particolare la sua versione jihadista, rappresenta la grammatica della rivolta più efficace che si possa trovare oggi tra le offerte antagoniste. La battaglia anti-imperialista odierna (cioè anti-globalizzazione o anti-liberaldemocrazia) è ereditata dal jihadismo che offre tutte le caratteristiche necessarie per chi vuole “fare la rivoluzione”. Per tale ragione accade sempre più spesso di trovare tra i combattenti del jihad anche dei non-musulmani e dei neo–convertiti. Come scrive Lorendo Vidino, uno dei maggiori specialisti del settore: «Oggi l’ideologia jihadista rappresenta la più forte, forse l’unica rimasta, tra le ideologie “contro”; il più intenso dei rigetti della società occidentale… non è sbagliato pensare che alcuni convertiti jihadisti 40 anni fa si sarebbero uniti a gruppi terroristici di estrema sinistra o destra».

La ricerca di senso

Rispetto al vecchio marxismo il jihadismo ha il vantaggio di riferirsi all’al di là: se le porte della misericordia qui in terra sono aperte a pochi a causa della diseguaglianza e se le porte d’Europa rimangono chiuse, almeno si può puntare alle porte del paradiso mediante il martirio. Ad un orecchio secolarizzato ciò può sembra folle ma non ai giovani di oggi, tutti immancabilmente alla ricerca di senso (senso della vita, senso del futuro ecc.) non importa da quale sostrato culturale provengano. Il jihadismo offre a giovani vulnerabili che si sentono falliti o discriminati o vuoti, un significato, un’appartenenza, una forma di fraternità fatta di rispetto, status, avventura, eroismo e martirio. Procura loro un’alternativa alla droga e al crimine: una società underground ma con regole chiare e semplici. Soprattutto offre potere sugli altri: ciò ricorda a noi italiani i proclami nichilisti e folli sulla “geometrica potenza” emessi dalle Br, giovani falliti che si sentirono per un po’ quasi onnipotenti. È lo stesso meccanismo.

Gridare al tradimento dei nostri valori e della nostra civiltà non serve: molti giovani di origine non musulmana trovano proprio nella cesura dalle loro radici la rivalsa contro un mondo che non li ha capiti. Allo stesso modo quelli di origine islamica, con il presunto recupero delle proprie tradizioni, reagiscono alla delusione contro una società occidentale che li ha discriminati e non li ha integrati. In questi percorsi malati si trova sempre un alto tasso di vittimismo e di atteggiamenti irresponsabili e riluttanti. L’analisi dell’auto comprensione di questi giovani ci aiuta a capire il fenomeno e pensare ai rimedi.

I giovani che si radicalizzano vivono la frattura con l'Islam dei loro genitori, con la cultura tradizionale delle società musulmane e con quella moderna delle società occidentali. Per loro il mondo va rifatto daccapo. Tuttavia usano i mezzi odierni di comunicazione: una miscela di estremismo e social molto pericolosa. In altre parole raffigurano la lacerazione generazionale auto-radicalizzandosi davanti al computer e immaginando il jihad come movimento globale. Non si occupano di predicare l’islam che non conoscono ma di realizzare il loro incubo violento individualistico e alienato. Come stava scritto in uno studio di questi fenomeni, si tratta della traiettoria «from zero to hero»: per cancellare la propria inettitudine ci si inventa una sanguinosa avventura. Dobbiamo certamente stare attenti ma non è una novità: abbiamo già letto tale deriva nelle pagine di Dostoevskij.

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