Nell'Italia di oggi, dove l’astensionismo aumenta di intensità ad ogni tornata elettorale, giova tornare con la memoria a quel 2 giugno del 1946, quando gli italiani riconquistano il diritto al voto dopo la parentesi buia della dittatura fascista.

Quella domenica e la mattina seguente, infatti, milioni di persone si recano in massa alle urne per scegliere i loro rappresentanti all’Assemblea costituente e dire la propria nel referendum tra monarchia e repubblica.

E per la prima volta partecipano al voto anche le donne, a parte le poche che vi si erano recate qualche settimana prima per le elezioni amministrative.

Lo scenario è così inedito che il Corriere della Sera rivolge un appello alle donne di recarsi senza rossetto in cabina elettorale, poiché «la scheda deve essere incollata e non deve avere nessun segno di riconoscimento» e le signore  «nell’umettare con le labbra il lembo da incollare potrebbero, senza volerlo, lasciarvi un po’ di rossetto e in questo caso rendere nullo il loro voto. Dunque il rossetto lo si porti con sé, per ravvivare le labbra fuori dal seggio».

Le testimonianze relative a quel giorno attestano che il momento del voto, a prescindere dalle diverse posizioni e dalle forti tensioni, per gli italiani è prima di tutto una «profonda emozione», come annota Sibilla Aleramo nel suo diario.

«Ti confesso – spiega Anna Maria Marucelli, in una lettera del 3 giugno al compagno Franco che ancora non rientra dalla prigionia in India – che quando ho avuto le schede in mano il mio cuore ha accelerato i battiti e la mia mano non era più tanto ferma. Sapevo che il mio voto insieme a quello di tanti altri avrebbe deciso le sorti del paese».

I seggi sono aperti per l’intera giornata di domenica 2 e la mattina di lunedì 3, al termine di una campagna elettorale serrata e non priva di tensioni. La partecipazione al voto è massiccia e sfiora il 90 per cento dei 28 milioni degli aventi diritto.

Lo spoglio, di conseguenza, sarà lento e complesso e solo il 18 giugno può essere formalizzazione la vittoria di misura della repubblica al referendum, con 12.718.641 voti a favore contro i 10.718.502 della Monarchia e un milione e mezzo di contestatissime schede nulle.

La due giorni del voto tutto sommato scorre liscia. Anche i prefetti che vigilano sul voto comunicano al ministero dell’Interno che «benché la lotta fra i vari partiti in competizione sia stata serrata, le elezioni politiche si sono svolte nel massimo ordine e nella massima legalità» (Grosseto), «con la maggiore libertà di voto» (Benevento) e che «la popolazione ha dimostrato piena maturità politica, astenendosi, in genere, da qualsiasi atto che potesse turbare il buon andamento delle operazioni elettorali» (Palermo). «Compostezza esemplare dei cittadini» e «opera persuasiva dei vari partiti» (Reggio Calabria).

Reali e partiti 

I leader politici e i rappresentanti delle istituzioni fanno la loro parte e, come prassi che poi diventerà consolidata, vanno a votare di buon mattino, per dare l’esempio e per farsi immortalare nelle foto di rito (la regina Maria José, però, aspetta la sera e racconterà poi di aver votato il Psiup di Saragat e scheda bianca al referendum, mentre re Umberto II è in dubbio fino alla mattina del 3, quando va al seggio per dare un segnale di rispetto del diritto democratico, e i suoi collaboratori diranno in seguito che anche lui ha votato scheda bianca).

«Da questa composta e serena votazione – commenta il prefetto di Roma – è emersa la maturità democratica della popolazione ed è in tutti la soddisfazione di vedere finalmente riconosciuta la propria dignità di cittadino e di aver compiuto il proprio dovere verso sé stesso e verso la società».

E il momento del proprio dovere – compiuto da molti per la prima volta, da altri dimenticato dopo anni di dittatura – è generalmente segnato da un coacervo di sentimenti che vanno dall’emozione, all’attesa, dalla paura di sbagliare a un rinnovato senso di partecipazione e responsabilità.

In quella «cabina di legno povero e con in mano un lapis e due schede – dice la scrittrice Maria Bellonci – mi trovai all’improvviso di fronte a me, cittadino. Confesso che mi mancò il cuore e mi venne l’impulso di fuggire. E il gesto che stavo per fare, e che avrebbe avuto una conseguenza diretta mi sgomentava».

Il «grande giorno per l’Italia», che si materializza nella ressa davanti alle urne: «la mamma è dovuta tornare ben 3 volte, ed alla terza ha fatto una fila di 2 ore», annota Anna Maria Marucelli.  

«Righetta – scrive quella domenica la sceneggiatrice Suso Cecchi d’Amico, alle prese in quegli anni con i suoi primi lavori – era andata a votare alle cinque e mezza (di stamani – cominciavano alle 6 e quindi ha pensato di trovarsi per tempissimo). È tornata a mezzogiorno. Io ho pensato di andare all’una e mezza ora di pranzo e siesta e infatti me la sono cavata con meno. Alle 4 ero a casa. Ma non so dirti cosa sono state quelle ore sotto un sole tropicale stramazzata in mezzo alla folla come nella peggiore circolare».

«Lunghissima attesa davanti ai seggi elettorali. Sembra – è la cronaca della giornalista e scrittrice Anna Garofalo – di essere tornate alle code per l’acqua, per i generi razionati. Abbiamo tutti nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome. Stringiamo le schede come biglietti d’amore».

«Prima di uscire di casa ricordo che il mio Babbo mostrò per l’ennesima volta il fac simile della scheda elettorale alla mia Mamma che lo mandò a quel paese. “Mi hai preso per scema…” disse e il mio Babbo la ripose in tasca senza fiatare», è il racconto del romano Giancarlo Governi. Un momento rimasto indelebile nel ricordo di tutti: «nella cabina di votazione avevo il cuore in gola e avevo paura di sbagliarmi» (Anna Banti); «dovevo fare una croce, l’avevo spiegato al mondo intero per mesi come fare, eppure ero preoccupata di non sbagliare» (la giornalista Elda Lanza, prima presentatrice della televisione italiana); «le donne più degli uomini e uscivano rosse in volto dalla cabina e qualcuna diceva: non so se ho fatto bene» (l’azionista Mario Bracci).

Vestiti a festa

L’occasione è tale, storica, che molti si recano ai seggi «vestiti a festa»: «Completo blu a lunette bianche, mamma Gerolama aveva acquistato la stoffa in un negozio» (la sarda Francesca Sirigu). «Il mio Babbo si era messo il vestito buono con la cravatta, come se andasse a un matrimonio», ricorda Giancarlo Governi.

Per non mancare all’appuntamento con la storia c’è chi, come genitori di Mario Augusto Lorenzin, fa «18 km per andare a votare nell’ultimo seggio a Centola, comune del Cilento», in quanto i servizi pubblici di domenica non funzionano, «e solo nel pomeriggio fecero ritorno soddisfatti di aver adempiuto per la prima volta nella loro vita il dovere di votare».

Una voglia di partecipazione contagiosa, tanto che una ragazzina, Maria Rosaria Tradardi, arriva a confidare al proprio diario alla pagina del 2 giugno 1946 che «i miei sono andati a votare di mattina presto. Io mi chiedo se con i miei quattordici anni faccio parte o meno di questa società. Perché non posso esprimere il mio pensiero politico che, peraltro ce l’ho ben nitido? Lo so, occorre aver compiuto la maggiore età. Ma è stato trovato un indicatore per misurarla? Oggi sono, meglio, mi sento, un po’ menomata. Mi par d’essere, non una persona vivente, ma qualcosa di insignificante». Parole che fanno sorridere, ma anche riflettere, alla luce del crollo attuale della partecipazione al voto.

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