Dagli Stati Uniti all’Argentina, dall’Italia alla Bosnia, da Singapore alla Thailandia, il colosso dello streaming Spotify ha alzato i prezzi della versione premium in quasi tutti i suoi principali mercati. Vista la riduzione percentuale della crescita anno su anno degli abbonati (dal +28 per cento del 2018 al +15 per cento dello scorso anno), il colosso svedese dello streaming ha deciso di massimizzare i ricavi provenienti dagli utenti già conquistati, mettendo in conto che ciò causerà un ulteriore diminuzione dei nuovi abbonati.

Tutti tranne l’India

Le cose, però, non vanno così dappertutto. In particolare, nell’elenco degli oltre cinquanta paesi colpiti dal rincaro manca una delle prime cinque nazioni per numero di utenti (premium o gratuiti) di Spotify: l’India. Non è una decisione temporanea: il responsabile della crescita di Spotify, Gustav Gyllenhammar, ha dichiarato che la piattaforma «non ha intenzione di alzare i prezzi in India nel prossimo futuro».

La scelta ha fondamenta strategiche: l’India è uno dei principali motori dell’espansione globale di Spotify e rappresenta da sola il 4 per cento del suo traffico globale. Come scrive Billboard, «nonostante sia un mercato caratterizzato da grandi volumi ma bassi ricavi, la nazione asiatica offre un enorme potenziale di crescita».

Spotify è infatti presente in India da soli quattro anni e la base utenti (sia premium sia gratuita) sta crescendo a un ritmo dell’80 per cento all’anno. Non solo: in una nazione in cui meno della metà della popolazione possiede uno smartphone, Spotify ha individuato nei consumatori che risiedono nelle città più piccole e nelle aree rurali il principale bacino da cui attingere nei prossimi anni.

La tecnologia come motore di sviluppo

Anche in questo caso, si tratta di una strategia fondata: secondo quanto si legge in un report di Bain & Company, a trainare la crescita dell’economia online indiana (che raggiungerà un valore di mille miliardi di dollari entro il 2030, rispetto ai 175 miliardi di oggi) saranno infatti proprio gli abitanti delle aree rurali e delle città più piccole, che si stanno rapidamente digitalizzando e ospitano l’87 per cento della popolazione indiana.

Lo streaming musicale è quindi solo un esempio della generale accelerazione del mercato online e digitale indiano, in cui inevitabilmente giocano un ruolo crescente anche i servizi di streaming video. Piattaforme come Netflix, Hotstar (di proprietà di Disney) o l’autoctona Jio Cinema rappresentano infatti il 9 per cento dell’industria dell’intrattenimento indiano e nel 2022 hanno generato un giro d’affari pari a 3 miliardi di dollari.

Oggi lo streaming video costituisce il 12 per cento del tempo complessivo trascorso consumando contenuti televisivi o cinematografici, in linea con nazioni asiatiche economicamente sviluppate come Giappone e Corea del Sud e ben al di sopra di mercati emergenti come Thailandia, Indonesia e Filippine. Inoltre, nonostante la presenza di colossi globali come Disney, Netflix o Spotify, l’India è caratterizzata da molteplici e importanti attori locali come la già citata Jio Cinema, JioSaavn o Wynk, evidenziando ulteriormente le potenzialità di crescita che il digitale rappresenta per l’economia della nazione asiatica.

Tutto ciò non riguarda solo l’industria dell’intrattenimento o dell’ecommerce (che oggi vale oltre cinquanta miliardi di dollari e cresce a doppia cifra anno su anno), ma il mondo del digitale e della tecnologia più in generale. Di tutto ciò, il primo ministro Narendra Modi è perfettamente consapevole: “La tecnologia aiuterà l’India a raggiungere il suo obiettivo di diventare una nazione sviluppata entro il 2047”, ha spiegato il premier in un discorso del febbraio scorso.

Il controllo dell’autoritario Modi

La parte più interessante del discorso tenuto da Modi è però probabilmente un’altra: «Il Ventunesimo secolo è alimentato dalla tecnologia, che non può essere limitata alle sole innovazioni legate a internet». E se Modi, con queste parole, avesse voluto sminuire il ruolo (in realtà essenziale) della rete per lo sviluppo dell’economia digitale indiana? Non si può escludere, dal momento che l’India è stata recentemente battezzata “capitale mondiale degli internet shutdown”, ovvero quelle fasi in cui, in una nazione o in un’area più circoscritta, la rete viene spenta per prevenire l’organizzazione di proteste o impedire la circolazione delle informazioni.

L’India ha infatti conquistato per cinque anni consecutivi il triste primato di nazione con il maggior numero di “spegnimenti di internet” (il 58 per cento di tutti quelli documentati a livello globale), alcuni durati anche per più giorni consecutivi e che – secondo quanto riportato dalla Internet Society – hanno causato danni economici alla nazione pari a 600 milioni di dollari nel 2021 e addirittura 2,8 miliardi di dollari nel 2020.

In aperta contraddizione con la sua dichiarata volontà di rendere l’India una società sempre più digitale, Modi continua insomma a trattare internet come un’infrastruttura accessoria (84 gli spegnimenti documentati anche nel 2022), da disattivare alle prime difficoltà politiche senza troppo curarsi degli ingenti danni economici che tutto ciò comporta.

Questi shutdown rappresentano il più drastico, ma non l’unico, metodo con cui il sempre più autoritario Modi cerca di controllare e censurare le informazioni che circolano attraverso la rete. Nel corso degli anni, il governo indiano si è dotato di poteri che gli consentono di intercettare i messaggi online, rimuovere post sgraditi sui social, censurare interi canali YouTube (oltre 200 quelli disattivati negli ultimi 12 mesi) e di costringere le piattaforme a identificare su richiesta l’autore di contenuti online sgraditi (una situazione che potrebbe ulteriormente peggiorare con l’imminente varo della legge nota come “Digital Act”).

Viste le dimensioni del mercato indiano (330 milioni di utenti Facebook, 300 milioni di Instagram, 25 di Twitter, ecc.), la resistenza da parte dei colossi social è spesso solo di facciata: “Possono cercare di resistere in qualche modo, ma poi finiscono sempre per cooperare, penalizzando ovviamente la libertà d’espressione”, ha spiegato a Wired USA l’avvocato esperto in questioni digitali Salman Waris. Come già dimostrato con TikTok, l’India non si fa nemmeno troppi problemi a mettere al bando i colossi digitali sgraditi. Anzi, nell’ottica di Modi la loro espulsione può anche favorire – seguendo in questo l’esempio della Cina – la nascita di realtà digitali locali.

Ma come possono emergere promettenti startup digitali, come può continuare a svilupparsi il fiorente settore dei creator e degli influencer (il cui mercato vale già oggi 145 milioni di dollari e dovrebbe più che raddoppiare nei prossimi tre anni), come si può puntare sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale, sulla crescita dell’ecommerce, sulla digitalizzazione della pubblica amministrazione se l’infrastruttura di rete che tutto ciò sorregge viene localmente disattivata anche cento volte all’anno e le aziende tecnologiche devono sottostare a normative censorie che complicano enormemente la loro esistenza?

«Il governo indiano ha dichiarato, nel dicembre 2022, di voler assicurare che le tecnologie digitali migliorino la vita di ogni cittadino, espandano l’economia e creino opportunità di investimento e di lavoro», si legge in un report di Human Rights Watch. «Gli spegnimenti di internet vanno in direzione contraria rispetto agli impegni sul digitale presi dal partito di governo e dal primo ministro Modi».

L’impressione è che l’India stia cadendo nella stessa trappola della Cina, che a causa della sua natura autoritaria sta avendo parecchie difficoltà nel cruciale, ma imprevedibile, campo dell’intelligenza artificiale generativa. In maniera diversa e per ragioni differenti, anche l’India potrebbe a breve trovarsi di fronte a un dilemma simile: sviluppare la propria economia digitale o mantenere un ferreo controllo su internet?

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