A due giorni dall’arrivo di Xi Jinping a San Francisco, dove  incontrerà Joe Biden, il democratico Bob Casey e il repubblicano Rick Scott hanno presentato una proposta di legge per monitorare l’operato delle compagnie d’investimento statunitensi che – secondo i dati raccolti dai due senatori – hanno versato più di 80 miliardi di dollari in Cina tra il 2018 e il 2022.

«I nostri avversari, come la Cina comunista, beneficiano di una totale mancanza di trasparenza. È ora di smettere di investirvi dollari americani», ha affermato Scott.

Intanto però a Shanghai si registrava un gran viavai di amministratori delegati delle maggiori multinazionali a stelle e strisce. Le autorità locali prevedono una crescita del Pil del 5,5 per cento nel 2023 (superiore alla media nazionale) e corporate America scommette sulla metropoli che, per il suo ruolo guida negli affari, è soprannominata la “testa del Dragone”.

Il mese scorso, il locale segretario del Partito comunista, Chen Jining, ha presieduto l’annuale International Business Leaders’ Advisory Council Meeting, al quale hanno partecipato, tra gli altri, gli amministratori delegati di JPMorgan, Jamie Dimon, e di Apple, Tim Cook, e il proprietario di Tesla, Elon Musk.

Il fatturato di Tesla, che nel 2018 ha inaugurato a Shanghai la sua Gigafactory 3, nel 2022 dipendeva per il 25 per cento dalla Cina, dove Musk aprirà presto anche una Megafactory per produrvi circa 10.000 accumulatori Megapack all’anno.

Boston Scientific aprirà la sua prima fabbrica cinese di dispositivi medici nella zona di libero scambio Lingang, sempre a Shanghai.

Per queste aziende non è il momento del “decoupling”, ma di rafforzare la presenza in un paese in grado sfornare prodotti di qualità a costi competitivi, e con una classe media (circa 400 milioni di persone) che si fida dei brand Usa. Di questi ultimi continuano ad avere bisogno anche le autorità, perché creano posti di lavoro, ancora più preziosi in un’economia che non corre più come in passato.

JPMorgan Boeing e le altre

L’amministrazione Biden non può che assecondare questa tendenza. Nelle discussioni che la settimana scorsa ha avuto con il suo omologo cinese, He Lifeng, per preparare il summit Biden-Xi, la segretaria del Tesoro Janet Yellen ha ammonito che «una completa separazione delle nostre economie sarebbe economicamente disastrosa per entrambi i nostri paesi e per il mondo».

Starbucks, presente in 250 città cinesi con oltre 6.500 caffetterie, punta ad averne 9.000 entro il 2025. Alla vigilia del vertice tra i due presidenti, Pechino ha fatto sapere che è pronta a riconsiderare gli acquisti di Boeing 737 Max, sospesi dopo i disastri aerei in Indonesia ed Etiopia del 2018-2019.

Secondo le sue stime, la Cina avrà bisogno di 8.560 nuovi velivoli commerciali entro il 2024: la multinazionale fondata a Seattle si dice “very bullish”, molto ottimista sulla Cina. Tra i tanti colossi Usa che tifano per la distensione tra Pechino e Washington c’è JPMorgan.

Dopo la sua battuta di due anni fa – «scommetto che che JPMorgan vivrà più a lungo del partito comunista» –  rimediata con un atto di contrizione mediatica, Dimon è stato accolto a Shanghai come un figliol prodigo, e ha giudicato “risolvibile” la guerra commerciale tra i due paesi.

Per JPMorgan, che ha investito in Alibaba e JD.com, e il cui motto è “crescere insieme alla Cina”, la Cina è un mercato sempre più strategico.

Secondo Bloomberg, domani sera Xi parteciperà a una cena con i magnati della finanza Usa, ai quali rivolgerà un appello per provare a frenare la fuga di capitali degli ultimi mesi, dopo che – tra luglio e settembre – la Cina ha accusato un deficit di 11,8 miliardi di dollari negli investimenti diretti esteri, il primo dato negativo da quando si è iniziato a monitorare questo indicatore 25 anni fa.

A legare in maniera indissolubile Cina e Stati Uniti, oltre agli investimenti, sono gli scambi. «Abbiamo una relazione commerciale da 700 miliardi di dollari con la Cina», ha ricordato ieri la ministra competente, Gina Raimondo. «La stragrande maggioranza, il 99 per cento, non ha nulla a che fare con i controlli sulle esportazioni».

Biden come Clinton

Nei primi dieci mesi di quest’anno il commercio bilaterale tra i due paesi è diminuito del 13 per cento, raggiungendo i 550,8 miliardi di dollari.

Nello stesso periodo, grazie al calo delle importazioni, gli Usa hanno ottenuto l’auspicata riduzione (del 20 per cento) del loro deficit commerciale con la Cina. Durante il China International Import Expo che si è svolto la settimana scorsa a Shanghai, lo US Soybean Export Council, la multinazionale alimentare Cargill e lo US Grains Council hanno siglato accordi miliardari di fornitura con imprese statali cinesi.

La corporate America che continua a tifare Cina uscì vincitrice da un epico scontro con la politica nel 1993, quando per far decollare la globalizzazione neoliberista incentrata sulle produzioni in outsourcing fu necessario rimuovere l’ostacolo del rinnovo (annuale) alla Cina dello status di “most favoured nation” (Mfn) nell’ambito del trattato internazionale Gatt.

Appena insediato, sostenuto dai sindacati che reclamavano protezione dalla concorrenza della manodopera asiatica e dalle organizzazioni per la difesa dei diritti umani, Bill Clinton era deciso a negarlo alla Cina. Ma fu costretto a una rapida marcia indietro dall’azione di lobbying delle multinazionali e dai mercati finanziari, che spingevano per la liberalizzazione degli scambi bilaterali.

Trent’anni dopo, il rapporto tra la potenza egemone e quella in ascesa è profondamente mutato. La nuova strategia di sicurezza nazionale ha designato la Cina come «la sfida geopolitica più importante dell’America», la pandemia di Covid-19 e la guerra in Ucraina hanno acuito la reciproca diffidenza.

Ma le prime due economie del pianeta, al netto dello scontro ideologico e delle politiche di “derisking” che colpiscono alcuni settori hi-tech, sono ormai intrecciate. E sia il partito comunista che corporate America hanno imparato a fare leva su questi legami.

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