Hanno scelto la data forse più simbolica nella prassi di un regime che ambiva, quantomeno sulla carta, ad accreditarsi come democratico. La giornata di lunedì 1° febbraio, infatti, coincideva con l’inaugurazione della nuova legislatura e con il giuramento degli oltre quattrocento parlamentari eletti dal popolo in occasione della contestata chiamata alle urne dello scorso novembre. Tuttavia, quando alle prime luci dell’alba sono scattati i raid delle forze armate che hanno condotto all’incarcerazione del cancelliere di Stato Aung San Suu Kyi, del Presidente Win Myint e di altre figure di spicco dell’esecutivo centrale e delle istituzioni locali, il Myanmar ha visto materializzarsi nuovamente i demoni del proprio turbolento passato.

Poche ore più tardi, il comunicato firmato dai militari del Tatmadaw per annunciare l’esautorazione del governo in carica, l’attivazione dello stato di emergenza nazionale che si protrarrà per almeno un anno e il contestuale trasferimento immediato dei poteri nelle mani del comandante delle forze armate, Min Aung Hlaing, ha certificato tali timori: il fragile assetto parlamentare e d’ascendenza civile del paese, che aveva da poco celebrato il proprio decimo anno di vita, ha esalato l’ultimo respiro.

Il golpe è giunto dopo settimane segnate da una tensione crescente fra il partito di maggioranza della Lega nazionale per la democrazia di Aung San Suu Kyi, che aveva stravinto le elezioni dello scorso novembre ottenendo un mandato di governo di altri cinque anni, e le forze armate, le quali contestano il risultato emerso dalle urne, dove hanno conquistato il misero bottino di 33 seggi parlamentari su un totale di 476. Scottato da una simile débâcle, all’indomani della tornata di voto il Tatmadaw aveva denunciato sistematici brogli nel conteggio delle schede elettorali, senza riuscire però a produrre alcuna prova sufficiente a mettere in discussione l’esito di un’elezione che, peraltro, era stata giudicata come corretta e regolare nel suo svolgimento da numerosi osservatori internazionali.

Proteggere la Costituzione

Il pretesto utilizzato per giustificare il colpo di stato, inoltre, ha chiamato in causa la necessità di proteggere la Costituzione del 2008 firmata dagli stessi militari, la quale aveva gettato le basi per la graduale transizione del Myanmar dal baratro dell’autoritarismo alla comparsa di un regime ibrido, contrassegnato da una condivisione del potere fra governi civili eletti con criteri democratici ed esponenti di punta delle forze armate, che avevano avocato a sé il controllo dei principali dicasteri e di un quarto dei seggi parlamentari.

Per molti versi, pertanto, il putsch appena concluso incarna un atto di forza del Tatmadaw ai danni di sé stesso e della creatura politica che ha attentamente svezzato sin dai primi anni Duemila, quando maturò la decisione di dar vita ad un assetto meno arbitrario e reazionario, nonché maggiormente in linea con gli standard e le richieste della comunità internazionale. Inizialmente la strategia sembrò funzionare alla perfezione, in special modo per quanto atteneva alla normalizzazione dei rapporti con Stati Uniti e Unione europea, all’archiviazione dello stato di isolamento diplomatico che gravava sul paese da almeno due decenni, come pure alla rimozione delle sanzioni economiche che avevano relegato il Myanmar al ruolo di fanalino di coda all’interno di una regione caratterizzata da travolgenti tassi di crescita.

Il progetto, noto con la formula un po’ ossimorica di roadmap verso la nascita di una “democrazia disciplinata”, parve poi conoscere il proprio apogeo nel corso del 2015 con l’elezione a capo del governo della paladina dei diritti umani Aung San Suu Kyi, la quale aveva lungamente combattuto il regime dei militari sopportando quindici anni di prigionia. All’epoca, l’euforia generalizzata che accompagnò il trionfo elettorale dell’ex premio Nobel per la pace contagiò tanto il mondo della politica quanto quello della finanza internazionale: la presidenza Obama salutò l’evento come l’effettivo dischiudersi della “favola democratica” birmana, mentre il gotha economico globale dipinse il “nuovo Myanmar” come l’ultimo eldorado degli investimenti in Asia orientale.

La paranoia dei militari

Durante il proprio quinquennio alle redini del governo, per giunta, la stessa Aung San Suu Kyi aveva dato ampie dimostrazioni di voler identificare un modus vivendi con i militari, rinunciando a contestare lo status quo vigente nel paese e guardandosi bene dallo sconfinare oltre il perimetro di manovra consegnatole dalla costituzione del 2008. Paradigmatica, in questo senso, l’accorata difesa offerta dal cancelliere di Stato a beneficio delle forze armate nel negare gli orrendi e incontrovertibili crimini perpetrati dalle stesse ai danni della minoranza Rohingya, anche a costo di attirarsi le critiche veementi di quella larga fetta della comunità internazionale che l’aveva lungamente celebrata e sostenuta, elevandola al rango di icona planetaria.

Ciò nonostante, dopo le elezioni dello scorso novembre il timore del Tatmadaw nel vedersi sempre più relegato al ruolo di partner minoritario in questo duopolio di potere è gradualmente trasceso in paranoia, alimentando la smania di rompere gli indugi e agire. Il golpe delle ultime ore, infatti, affonda le proprie radici in una lunga tradizione contrassegnata delle interferenze e dalle invasioni di campo delle forze armate birmane nell’agone politico. Il primo colpo di stato perpetrato dai generali allo scopo di difendere l’unità del paese, non a caso, giunse nel lontano 1958, per essere poi replicato nel 1962 e nel 1988; mentre il mancato riconoscimento del verdetto delle urne ricorda da vicino la cancellazione d’imperio del risultato elettorale del 1990, anch’esso caratterizzato dal trionfo della Lega democratica.

In aggiunta, la decisione dei militari di riassumere il controllo del potere va compresa alla luce dei delicati equilibri che sussistono in seno allo stesso Tatmadaw. Con il programmato e imminente ritiro dal proscenio del comandante in capo Min Aung Hlaing per raggiunti limiti d’età, infatti, il putsch può essere visto come una extrema ratio adottata dai suoi fedelissimi per prolungare ad libitum la propria traiettoria politica. Per la stragrande maggioranza della popolazione, già piegata dalla fuga degli investitori stranieri a seguito della crisi dei Rohingya e dalla scure della pandemia globale, il golpe del 1° febbraio cancella invece con un colpo di spugna più di un decennio di timide conquiste democratiche, sociali ed economiche, riportando le lancette indietro verso un passato che si credeva ormai archiviato.

 

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