Un anno dopo Mahsa Amini la rivolta in Iran pare inabissata. Sotto il pesante maglio della repressione le manifestazioni si sono rarefatte: eppure il dissenso trova altre modalità per esprimersi. Come l’inosservanza delle norme sul velo, in particolare nelle città, dove vive tre quarti della popolazione e le donne permeano il paesaggio urbano di segni nuovi: da più di quarant’anni muoversi senza hijab in luoghi e spazi pubblici era semplicemente impossibile.

La strada è ancora il luogo della protesta ma è mutato il modo nel quale è usata: non più luogo di raduni destinati a essere dispersi con la forza, ma scena di esibite affermazioni individuali. Nel nome di una rivendicata libertà, ragazze e donne la percorrono senza velo, incuranti persino del ritorno, sotto una nuova veste, della Gasht-e-Irshad – la “polizia della moralità” divenuta , significativamente, “polizia per il rispetto delle prescrizioni sull’abbigliamento” – che arrestando e percuotendo a morte la “malvelata” Mahsa ha scatenato la rivolta.

La protesta si è fatta, dunque, pratica individuale, soggettiva. Se prima di Mahsa la battaglia delle donne era quella per lasciare scoperta una ciocca di capelli, indossare abiti dai colori sgargianti e “proibiti”, arricchire con un tocco di fantasia e bellezza quella che la morale dello stato etico esigeva fosse una mise “modesta”, dopo la sua tragica fine sacrificale è diventata quella per la libertà di indossare o meno il velo.

Ma se già le “malvelate” erano ritenute artefici di una resistenza alla “morale di stato” da stroncare – poiché la femminilità non più occultata minacciava, mediante la “seduzione che diventa sedizione”, la coesione della comunità maschile, che sul controllo sociale del corpo femminile fondava la sua unità – invocare la fine dell’obbligatorietà del velo fa aleggiare il fantasma, ben più inquietante, della delegittimazione del regime che quell’obbligo ha imposto in nome di principi religiosi ritenuti immutabili.

L’impolitica, assai politica, rivoluzione dei costumi chiesta dalle donne è intollerabile per il potere, che vede messo in discussione non solo “l’ordine della purezza” simboleggiato dal velo, che dovrebbe separare ciò che si vuole separato, l’universo maschile da quello femminile fuori dalla dimensione familiare, ma una concezione della religione in cui è lo stesso potere a definirne e presidiarne i confini.

Sarebbe, comunque, fuorviante interpretare la disputa sul velo come un’impetuosa e generalizzata domanda di secolarizzazione: ciò che gli iraniani, in maggioranza, chiedono non è il rigetto dell’islam ma una sua diversa declinazione, che lo riconnetta alla fede e non all’ideologia, che lo riconduca al Dio della Devozione e non al Dio del Politico.

Un terreno sul quale le donne decise a sfidare il regime si sono situate da tempo, sebbene non con la radicalità attuale. Maturando convinzioni che si sono formate , nel corso del tempo, nella discussione tra laiche e settori di quelle religiose- sviluppatasi dopo la fine della conflittuale fase “unanimista” della Rivoluzione seguita alla fine della guerra con l’Iraq e la scomparsa di Khomeini – in particolare quelle legate al “femminismo islamico”.

Oltre che nella relazione con la diaspora iraniana - circa quattro milioni di persone che vivono in gran parte in occidente, molte negli Stati Uniti e in Europa-, con la quale i ponti , costituiti dai legami familiari, non sono mai stati tagliati. Frammentata al suo interno, la diaspora, sempre oscurata da osservatori che usano solo strumentazioni politologiche per leggere l’Iran, non è riuscita a esprimere istanze e leadership che sapessero saldarsi con chi continuava a vivere nel paese d’origine, ma certo ha contribuito a scavare, sociologicamente, solchi profondi, mostrando l’esistenza, fuori confine, di un altro tipo di esistenza.

Rieducazione

Come reagisce il regime alla “sedizione” divenuta forzatamente individuale? Mettendo in campo una diversa strategia. Certo, la nuova polizia dei costumi è ricomparsa nelle strade, sebbene con la raccomandazione, non sempre osservata da un personale uso ad altri metodi, di adottare un atteggiamento “pedagogico” prima ancora che securitario; e i basiji, gli uomini della milizia, continuano le loro incombenti e roboanti ronde motorizzate.

Ma il nuovo strumento è la dilatazione dell’ “islamismo della sorveglianza”, l’occhiuto sguardo delle telecamere, installate ovunque, che perlustrano incessantemente le strade alla ricerca delle reprobe. Questo tipo di repressione – ispirata al principio “meno manganelli, più immagini” che fa da nuova cornice al già esistente programma Nazer 1 – non necessita di un insostenibile controllo in divisa della strada, ormai svuotata dai cortei, bensì di un apparato di polizia e amministrativo capace di utilizzare la schedatura visuale di massa al fine di perseguitare le “dissidenti” in ogni sfera della vita quotidiana.

Con l’obiettivo di fare terra bruciata intorno a loro e ai luoghi sociali, ancora fisici, che frequentano senza hijab. Una volta individuate diventano oggetto della “rieducazione” mediante “persuasione” auspicata da Khamenei, consapevole che arrestare migliaia di donne che non portano il velo diventa controproducente, anche perché schiera le famiglie, non sempre omogenee politicamente, contro lo stato. Se i locali pubblici che accolgono le senza hejab, vengono temporaneamente chiusi, infliggendo danni economici e precedenti forieri di problemi, le imprese private che non fanno rispettare “il pudore” vengono “dissuase” in modo intimidatorio.

Quanto alle “irriducibili”, che si rifiutano di indossare il velo dopo l’intimazione a farlo, o sono già sottoposte a provvedimenti penali per il loro attivismo, sono passibili di misure giudiziarie che possono imporre anche “ cure psicologiche”: pratica che, come già nei regimi totalitari, equipara il dissenso a una patologia. La via imboccata del regime è quella di condannare le donne senza hejab a una vita non-vita, mediante la privazione sociale che scaturisce dall’impossibilità di lavorare , usare i servizi pubblici, frequentare spazi collettivi.

La leadership che non c’è

Nonostante il drastico “salto di qualità”, la repressione non è ancora riuscita a venire a capo di questa tenace soggettività femminile, dell’intenso desiderio di vivere che la alimenta, espresso oltretutto dalla componente più istruita della popolazione, vero motore del dissenso verso il regime.

Soggettività sufficiente a farlo cadere? Al di là delle differenze di genere e delle fratture etniche, la protesta esplosa dopo Mahsa ha unificato grande parte degli iraniani, facendo da scintilla al diffuso malcontento per la difficile situazione economica e sociale del paese.

È la prima volta che accade: nella storia della Repubblica islamica il potere ha sempre avuto la meglio anche perché chi protestava – fossero gli universitari, le donne, le minoranze arabe o curde, i ceti popolari toccati dal carovita – non ha mai saputo, o potuto, trovare alleanze in altri gruppi o segmenti sociali. La rivolta attuale ha superato quelle barriere ma non diventa rivoluzione per manifesto vuoto politico legato all’assenza di leadership: senza una guida stabile, capace di dagli forma, organizzazione, capacità di tenuta alla repressione, il dissenso non diviene massa critica.

Leadership che non sembra emergere all’interno per mancanza di saperi politici estirpati dallo spegnimento di ogni opposizione , dall’estraneità delle nuove generazioni- il fulcro della protesta –, verso forme di conflitto, e strumenti , non avvertititi come propri , per la volontà di non avere come sponda le fazioni riformiste di regime, fautrici di una versione morbida del “sistema”, percepite come un usurato, compromesso, e impotente, reperto di archeologia politica.

Ma nemmeno sorge all’esterno: nonostante lo spirito del tempo sia quello della rimozione del passato, paiono difficilmente spendibili discussi protagonisti come Reza Pahlavi junior, il figlio dello shah che con la sua dispotica politica ha provocato la sollevazione del 1979, o come Maryam Rajavi dei Mojaheden-e-Khalq, divenuti meno sgraditi all’occidente alla ricerca di oppositori. Difficile che una rivolta senza leader possa far collassare il regime.

Questo dispone sempre di un’ultima chance: la trasformazione in puro potere militare attorno ai sempre più potenti Pasdaran, soluzione estrema per evitare che la caduta dei turbanti provochi anche quella degli elmetti. Nel tentativo di dare forma a un khomeinismo senza clero, imperniato sulla rinascita del nazionalismo farsi, capace persino di tollerare una, relativa, separazione tra politica e religione.  

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