Forse è vero ciò che dice il presidente Joe Biden, cioè che in realtà «nessuno vuole questo sciopero», però sembra che le posizioni tra lo United Auto Workers (Uaw), il sindacato dell'auto statunitense, e le cosiddette Big Three del settore (General Motors, Ford e Stellantis) siano sempre più distanti.

Tanto che lo sciopero si può allargare non solo agli altri stabilimenti che si trovano lontano da Detroit e persino al di là del confine con il Canada. La scorsa settimana l'Uaw aveva proclamato l'agitazione per non essere riuscita a ottenere una risposta soddisfacente su diverse questioni. Non soltanto un aumento del 40 per cento nel giro dei prossimi tre anni, sull'esempio di quanto i dirigenti dei tre colossi automobilistici si sono assegnati dal 2020 in poi, ma anche la richiesta esplicita di allargare i benefit ai lavoratori che costruiscono auto elettriche.

Soprattutto quelli di Tesla, azienda fondata dal tycoon di origine sudafricana Elon Musk, un tempo molto vicino a Barack Obama e che da circa un anno si è spostato verso la destra repubblicana. In Tesla i dipendenti che cercano di fondare una sezione sindacale vengono normalmente licenziati, un comportamento totalmente antisindacale.

Anche il Canada

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Anche nelle fabbriche di auto elettriche di proprietà delle Big Three i lavoratori però non sarebbero coperti dall'accordo che è stato proposto al presidente dell'Uaw Shawn Fain. Nella bozza presentata a inizio settembre si prevede solo un aumento del 30 per cento per chi lavora nella produzione di auto tradizionali. Nessuna copertura per l'elettrico. E le posizioni non si sono avvicinate nella prima settimana.

Proprio per questo Fain ha annunciato la volontà di allargare la protesta «qualora non vengano fatti concreti progressi nella discussione». Non solo agli stabilimenti americani, dove già da circa sette giorni 13mila lavoratori hanno incrociato le braccia, ma anche in Canada.

Lana Payne, presidente di Unifor, il principale sindacato canadese dell'auto, ha annunciato che potrebbero seguire i loro colleghi americani anche i 5mila 700 lavoratori degli stabilimenti della Ford in Ontario, non distanze dal confine statunitense.

L'approccio di Payne è più tradizionale, dato che ha comunque elogiato l'atteggiamento «costruttivo» della casa automobilistica americana, e intende colpire le Big Three una per volta, siglando tre nuovi contratti separati. Pur condividendo la preoccupazione relativa alla perdita di posti di lavoro dovuta alla transizione elettrica (si prevedono 35mila licenziamenti nel corso dei prossimi anni) Fain invece intende ridisegnare i rapporti di forza nei confronti delle aziende automobilistiche, andando oltre le consuete questioni contrattuali e dando un maggior peso ai lavoratori anche a livello decisionale.

Un atteggiamento aggressivo simile a quello di Walter Reuther, il fondatore del sindacato Uaw che negli anni 50 riuscì a piegare i colossi del settore.

Lo smacco

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La differenza con Reuther c'è: Fain non è interessato a portare la forza dei suoi uomini al servizio dei democratici. Se questa lotta indebolirà le chance di Joe Biden nel 2024, peggio per lui che non ha sostenuto la lotta fino in fondo.

Un grosso smacco per chi si era autodefinito come «il presidente più favorevole al sindacato» di sempre. Anche per questo Fain non ha annunciato alcun endorsement per il prossimo anno, come a volersi distaccare da un inquilino della Casa Bianca sempre più debole e impopolare.

Una situazione che di certo non aiuta a vendere la Bidenomics a un elettorato sempre più scettico e disilluso di fronte a una replica delle elezioni del 2020, con due candidati che appaiono sempre più lontani dall'opinione pubblica eppure inevitabili per una serie di circostanze.

Paradossalmente il più connesso con questo popolo di tute blu rimane l'anziano senatore socialista ed ex sfidante di Biden alle primarie dem del 2020 Bernie Sanders, accolto trionfalmente dagli scioperanti negli scorsi giorni dove ha tuonato contro «l'avidità delle corporation».  

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