Non sempre l’equilibrismo riesce. In Libia il presidente turco Recep Tayyip Erdogan non è (ancora) riuscito a mantenersi in bilico tra la volontà di ricucire con l’Egitto e quella di diventare la potenza egemone nel paese nordafricano in crisi.

Le recenti mosse della Turchia a Tripoli stanno minando il nascente dialogo con l’Egitto, anche se Ankara aveva adottato una serie di misure contro i Fratelli musulmani per compiacere al Cairo.

Com’è noto, le relazioni tra Egitto e Turchia erano state rotte nel 2013 a seguito del rovesciamento del presidente egiziano Mohammed Morsi, appartenente ai Fratelli musulmani.

All’epoca Ankara era uno dei principali sostenitori della Fratellanza che il Cairo invece considerava gruppo terroristico. L’idea turca è ora di voltare pagina: normalizzare i legami con l’Egitto ottenendo una maggior influenza nelle complesse controversie energetiche del Mediterraneo orientale.

Tuttavia allo stesso tempo Ankara voleva pesare sulla definizione di un nuovo assetto libico. Troppe cose allo stesso tempo che non sono piaciute al Cairo. Il ministro degli Esteri egiziano Sameh Shoukry ha dichiarato l’interruzione del dialogo (invero appena iniziato) a causa delle «azioni della Turchia in Libia».

Dopo aver ripreso buone relazioni con Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita e aver ricominciato a parlare con Israele, la Turchia era sicura di centrare un altro obiettivo: d’altronde la crisi con Riad era stata tra le più dure (affaire Kashoggi), così come quella della Mavi Marmara con gli israeliani, che aveva provocato vittime turche.

Gli accordi con Tripoli

Cosa non ha funzionato con l’Egitto? L’irritazione del Cairo si concentra sui tre nuovi accordi stilati tra Ankara e il governo con sede a Tripoli, i quali hanno innervosito anche il parlamento di Tobruch, quello che contesta la legittimità del primo ministro tripolino Abdul Hamid Dbeibah e che ha incaricato il premier alternativo Fathi Bashagha.

Ankara non ha calcolato che la questione libica ha una valenza esistenziale per l’Egitto, segnatamente il controllo della Cirenaica.

Non si tratta solo di influenza oltre frontiera: la Libia è percepita come parte integrante dello spazio geopolitico egiziano e gli urti con Gheddafi su questo punto furono numerosi.

Tra l’altro non va dimenticato che all’epoca del rais più di un milione di egiziani lavoravano in Libia ed ora ricadono addosso alle fragili strutture di welfare del paese.

Nemmeno gli arresti di vari responsabili dei Fratelli musulmani egiziani – nemici irriducibili del presidente al Sisi – hanno ammorbidito il nervosismo egiziano.

Sebbene Ankara abbia fatto sospendere i programmi social media dei critici di al Sisi e chiuso i media che hanno sfidato tali restrizioni, il Cairo non è ancora soddisfatto.

L’Egitto sospetta che la Turchia stia facendo il doppio gioco in Libia, malgrado ogni rassicurazione di Ankara. Gli accordi firmati dai turchi con Tripoli riguardano l’esplorazione energetica e la collaborazione militare: vengono cioè interpretati come un sostegno a Dbeibah, il premier sostenuto dalle milizie tripoline e in lotta di legittimità contro quello sostenuto dal generale Khalifa Haftar di Bengasi e dall’assemblea di Tobruch.

Secondo il Cairo il mandato di Dbeibah è terminato nel dicembre 2021 quando la Libia aveva pianificato le elezioni che non è risuscita a tenere. Di conseguenza l’Egitto sostiene Fathi Bashagha, il premier alternativo approvato dal parlamento orientale all'inizio di quest’anno. La Libia ha così due assemblee e due governi.

Per l’Egitto il sostegno a Bashagha pesa più delle questioni relative alla Fratellanza musulmana, come invece sperava Ankara. D’altronde al Sisi ha normalizzato i suoi rapporti con il Qatar in cambio di investimenti, anche se quest’ultimo non ha ritirato il suo sostegno ai Fratelli musulmani.

La sterzata

Il paradosso è che in Libia molti leader locali dei Fratelli musulmani sostengono Bashagha contro Dbeibah. Inizialmente la Turchia stava con Bashagha, considerato un uomo dei turchi fino a un anno fa.

Poi vi è stata una sterzata, soprattutto dopo che Bashagha ha tentato di entrare a Tripoli con la forza e con l’appoggio dell’esercito nazionale libico di Haftar, come già quest’ultimo aveva tentato nel 2019 scontrandosi con le milizie filoturche.

Il calcolo alla base delle recenti mosse di Ankara era che la posizione egiziana in Libia si fosse indebolita a tal punto che il Cairo non era più in grado di influire con efficacia.

Ma la reazione egiziana è stata forte e immediata anche se non è chiaro per quanto tempo al Sisi potrà opporsi all’egemonia turca.

Certamente la diplomazia egiziana è già al lavoro per ritessere una rete politica alternativa assieme ad altri attori, non esclusi i russi o gli europei, alla ricerca di un nuovo equilibrio politico sulla crisi. Dal canto suo Ankara trae beneficio della fine del suo isolamento nel Golfo, si fa forte del rafforzamento delle relazioni (ancora sotterranee) con gli Stati Uniti grazie alla sua insolita posizione da mediatrice tra Russia e Ucraina.

Tuttavia Ankara potrebbe sbagliare i calcoli: il Cairo continua a vedere la presenza militare turca in Libia (e in nord Africa) come una minaccia. Al vertice della Lega Araba dell’1° e 2 novembre tenuto in Algeria, al Sisi ha insistito per una condanna della Turchia anche se ha ottenuto solo una forma indiretta (“interferenza straniera” negli affari arabi).

Inoltre l’Egitto rimane allineato con la Grecia contro l’accordo di demarcazione marittima tra Ankara e Tripoli e la zona economica esclusiva che entrambi rivendicano nel Mediterraneo orientale.

Gli esperti vedono nell’accordo petrolifero turco-libico un tentativo di Ankara di frenare gli sforzi di Cipro, Grecia, Israele ed Egitto per costruire il Transmed che esclude la Turchia.

Resta il fatto che la comunità internazionale globalmente non vede male la presenza turca in Libia occidentale cioè in Tripolitania, considerandola una – seppur parziale –  garanzia di stabilità. L’unico punto in discussione è quanto le si possa permettere di espandersi anche verso la Cirenaica. 

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