La Turchia è Europa? È un quesito che i governi europei si sarebbero dovuti porre fin dalla metà degli anni Sessanta del secolo scorso: risale infatti al 1964 la prima richiesta di adesione della Turchia all’allora Comunità europea. Ancora non c’è risposta a tale domanda. Ciò corrisponde alla storia: gli europei hanno sempre avuto uno sguardo incerto e ambiguo nei riguardi di Istanbul prima e di Ankara poi. Si tratta di una vecchia vicenda.

Parigi è piena di luoghi topografici che ricordano un conflitto dimenticato: la guerra di Crimea del 1853. Francia e Gran Bretagna attaccarono la Russia teoricamente in difesa dei turchi ottomani anche se in realtà temevano più l’espansionismo russo di quello turco. Schierandosi con l’impero musulmano contro quello cristiano ortodosso, accettarono i massacri dei cristiani d’oriente come danni collaterali. Una delle più orribili conseguenze di quella guerra furono le stragi di cristiani nei Balcani e nel Caucaso ad opera dei turchi. Anche la Germania del Secondo Reich riprovò la medesima alleanza durante la Prima guerra mondiale, con l’unico risultato di facilitare il genocidio degli armeni.

L’impero ottomano lasciò il suo posto alla Turchia moderna di Ataturk, etnicamente omogenea e con la dichiarata intenzione di imitare l’Europa: nazionalismo, nuovo codice civile, nuova scrittura e secolarizzazione delle istituzioni. La trasformazione piacque agli americani (insediati nel Mediterraneo con la Seconda guerra mondiale) ma non bastò a convincere gli europei. L’adesione di Ankara alla Nato in funzione anti sovietica fu una decisione di Washington, a cui i partner dovettero piegarsi. L’insistenza turca nel chiedere l’entrata nel processo di integrazione europea ricevette sempre risposte dilatorie e riluttanti. Il ruolo dell’esercito turco e le violazioni dei diritti umani erano la miglior scusa per rimandare.

L’arrivo di Erdogan ha improvvisamente cambiato tutto il quadro: più democratico, lontano dalla sensibilità dell’esercito (e perciò stesso meno accondiscendente con gli Stati Uniti), più aperto al dialogo. Il nuovo premier tolse potere ai generali. Il suo partito, l’Akp, parve una specie di “democrazia musulmana”. Furono permesse buone riforme economiche. Erdogan si spinse ad aprire negoziati con i curdi, permise il restauro di chiese; dialogò con l’Armenia. Non c’erano più scuse per tenerlo lontano, nemmeno la questione cipriota. L’Europa doveva decidere.

L’incubo euro-turco
Ma le primavere arabe con le manifestazioni di Gezi Park, la guerra di Siria e soprattutto il tentato golpe del 2016 rimisero tutto in discussione. Il premier turco si irrigidì ritenendo di essere stato preso in giro dagli europei. Tornarono in voga vecchi ruderi dell’ipernazionalismo turco: islamizzazione, neo ottomanesimo e revisione dei trattati successivi alla Prima guerra mondiale. Ciò ha trasformato le relazioni euro-turche in un incubo. A dare il colpo di grazia era già stato Nicolas Sarkozy, il presidente francese che aveva imposto per legge l’obbligo di referendum popolare in caso di conclusione positiva dei negoziati fra Unione europea e Turchia. Un modo per mettere fine a ogni speranza che la Germania non aveva potuto evitare.

Inutile perdersi in discussioni su chi ha commesso più errori: tra Europa e Turchia non c’è più feeling. In particolare con la Francia. Il presidente Emmanuel Macron oggi denuncia una Turchia aggressiva e militaresca, ma già il suo predecessore, François Hollande, non aveva digerito l’alleanza russo-turca sulla Siria, tentando fino alla fine del suo mandato di convincere gli americani ad attaccare Damasco. I due paesi ora si guardano in cagnesco nel Mediterraneo centrale e ci sono rischi di uno scontro navale.

Gli americani infastiditi
A differenza del 1853, questa volta Parigi ritiene che l’aggressore più pericoloso sia la Turchia e non la Russia. Il nervosismo sale anche perché gli americani hanno fatto sapere ai francesi che per loro Ankara rimane un alleato prezioso, in funzione anti cinese. Resta il fatto che l’economia turca è ormai molto connessa a quella occidentale. Ciò vale anche per l’Italia. Di conseguenza i legami economici non permettono rotture violente. Anche Erdogan ne deve tener conto: ciò che davvero infervora il dibattito in Turchia sono le preoccupazioni economiche, la crisi della lira e l’evoluzione della pandemia.

Oltre al disaccordo sulla Siria, Erdogan si è messo di traverso anche in Libia sostenendo al Serraj con uomini ed armi. Haftar, alleato dei francesi, ha perso la sua battaglia. Scottata dall’essere stata esclusa da EastMed (il gasdotto tra Israele e la Grecia), Ankara ha reagito con le esplorazioni attorno a Cipro e nel Dodecaneso, scortate militarmente. I francesi ritengono questo una pericolosa provocazione e hanno deciso di contrastarla. Macron intende anche vietare sul suolo francese ogni propaganda politica dei partiti turchi, mettendo così fine ad un’abitudine che Erdogan ha molto sfruttato.

Tali gesticolazioni aggressive celano una realtà interna più complessa di ciò che si pensa. Dal 2016 a oggi l’Akp ha subito due scissioni e la strenua difesa da parte di Erdogan del ministro delle finanze Albayrak (suo genero) ha accresciuto i malumori anche tra i suoi fedeli. La recente morte in cella dell’avvocata e attivista Timtik per sciopero della fame ha portato alla luce tutti coloro che stanno seguendo le sue orme. Erdogan non vuole finire totalmente isolato: la Turchia ha bisogno degli investimenti occidentali per continuare a crescere né può certo immaginare di sostituirli con quelli russi. Sarebbe intelligente offrirgli una via di uscita senza perdere la faccia.

© Riproduzione riservata