Negli ultimi quindici anni circa, oltre la metà della popolazione mondiale ha vissuto a contatto con una qualche forma di violenza organizzata. Non più solo appannaggio di paesi poveri o fragili ma anche degli stati forti.

Il moltiplicarsi di milizie delle più varie specie è generale. Come tanti altri settori dell’economia, anche la guerra e le prerogative della violenza sono andate simultaneamente globalizzandosi e privatizzandosi, diventando un nuovo terreno di intervento del mercato.

Accanto al monopolio della forza esercitato dagli stati, esistono da sempre fenomeni dissidenti di violenza criminale o ribelle di varia natura, ma anche tentativi sussidiari di gestione della violenza, come i mercenari o le compagnie di sicurezza. Questi ultimi svolgono intervenuti in sostituzione degli stati, come proteggere un campo di rifugiati o l’attività di una ong, mantenere l’ordine laddove le istituzioni nazionali falliscono, securizzare un campo petrolifero o una zona mineraria, fare operazioni di intelligence e così via.

Fino a qualche anno fa si trattava di fenomeni temporanei che gli stati riassorbivano rapidamente, oppure forme di violenza occulta: ufficialmente l’utilizzo della forza rimaneva un monopolio pubblico.

Ora tale schema è saltato: gli stati, incluse le grandi potenze, accettano sempre di più il principio della privatizzazione della guerra, sfruttandone i possibile vantaggi, preferendo non essere coinvolti direttamente. Il fenomeno più evidente è l’utilizzo dei cosiddetti contractor, in azione a partire dalle guerre del Golfo.

Cercando di diminuire il numero di bare da portare indietro avvolte nella bandiera, gli Stati Uniti hanno progressivamente demandato parti intere delle proprie operazioni militari ad aziende di sicurezza private. Queste ultime restano certamente sotto il vigile controllo dell’amministrazione pubblica per le questioni strategiche ma non sono responsabili davanti ad essa per ciò che compiono. Il piano americano del ritiro dall’Afghanistan prevede la permanenza dei contractor.

La violenza ibrida

Nel «mercato globale della sicurezza» l’autonomia dei soggetti privati e non statuali sta crescendo. I «contratti» stipulati con i governi per cui lavorano sono a tutti gli effetti delle scritture private. Se ciò accade per le grandi potenze, in altri paesi avviene in modo meno organizzato ma ugualmente segnato da forme di privatizzazione sempre più evidenti.

L’effetto immediato di tale indirizzo è la moltiplicazione delle milizie (private o semiprivate) in tutti gli scenari di conflitto. Si tratta di una crescita esponenziale che muta il volto stesso delle guerre in atto.

Milizie condotte da «signori della guerra» sono già esistite in passato ma si trattava in genere di uno strumento per prendere il potere e «farsi stato». Oggi questo non è più l’obiettivo di tali gruppi, quanto piuttosto quello di vendersi al miglior offerente, offrire servizi di protezione o impossessarsi di risorse locali.

In buona sostanza si tratta di un modo di carpire una parte della ricchezza e delle opportunità offerte dalla globalizzazione senza assumere responsabilità di governo. In tale contesto la violenza diviene «ibrida»: in certi quadranti spesso non è chiaro se si ha a che fare con un gruppo armato che lavora per uno stato, per una etnia o un clan, per sé stesso, per un’idea o ideologia, per una potenza esterna o un gruppo terrorista.

Vi sono gruppi armati o milizie che operano contemporaneamente con diversi registri, a seconda delle opportunità. Ciò avviene nel Sahel dove uomini in armi si improvvisano di volta in volta trafficanti, commercianti, terroristi islamici, ribelli secessionisti o banditi. Interi gruppi cambiano pelle e schieramento con facilità.

Una delle ultime singolari novità, in sintonia con lo spirito green attuale, è la costituzione di agenzie armate dedite al settore della conservazione naturalistica. African Parks, ad esempio, è una società di contractor (armati e dotati di blindati ed elicotteri) specializzati nel controllo manu militari di alcune riserve naturali africane, zone che gli stati non possono più gestire per mancanza di mezzi.

Il marketing jihadista

Un peculiare esempio di guerra privatizzata è quella del jihadismo globale. La sua nascita come nuovo prodotto religioso nel supermarket del ribellismo globale è dovuta a uno sradicamento dal territorio e dalla cultura di origine. Fenomeni noti come i foreign fighter o il diffondersi di gruppi jihadisti in terreni dove non c’era mai stata la presenza dell’islam militante dimostrano che si tratta di un prodotto esportabile.

Gruppi armati possono «inventarsi» jihadisti in ogni luogo, rifacendosi a una dottrina molto distante dall’islam tradizionale. È sufficiente che vi sia una «domanda» perché si crei un’offerta, complice il marketing della propaganda. D’altronde oggi è sempre più frequente che ci si «converta» all’islam radicale da soli davanti al computer, non all’interno di una comunità.

Tali gruppi scatenano conflitti diversi dal passato: guerre «contro tutti», senza un programma di accesso o condivisione del potere, né rivendicazioni. Certo l’Isis voleva «farsi stato» e in questo risultava comprensibile, pur nell’atrocità dei metodi utilizzati. Ma un’altra parte dei movimenti jihadisti contemporanei appare piuttosto come una nebulosa nichilista.

In generale si assiste anche ad un’incessante mutazione dell’identità stessa dei raggruppamenti e assumere la jihad come programma è solo l’esempio più frequente. In altri casi ci si trasforma in provider di sicurezza. Milizie private armate e spesso anonime si diffondono senza sosta in tutti i continenti.

Nella gran parte dei conflitti gli attori armati si moltiplicano: in Siria si sono contate fino a oltre 200 milizie; in Nigeria o in Somalia poco meno di 200; in Yemen circa 100 come in Libia; in Iraq circa 50 come in Afghanistan e così via. C’è di tutto: milizie di autodifesa; gang di criminali che partecipano alla guerra, contractor, agenzie di sicurezza private, vigilantes, paramilitari, armati tribali, forze di sicurezza, cittadini organizzati.

Ognuno di questi attori della violenza ha un sola agenda: sopravvivere. Per questo gli sforzi dell’Onu e dei governi possono non avere nessuna incidenza sul loro operato. La privatizzazione della guerra è già una realtà.

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