Non basterà una felice operazione militare in Libano, conclusa con l’omicidio mirato di Saleh al Arouri, vice capo dell’ufficio politico di Hamas, per mistificare l’evidenza del fallimento di fatto dell’obiettivo primario proclamato a più riprese da Benjamin Netanyahu: distruggere Hamas.

Ovviamente usando formule “creative” per non sconfessare sé stesso, il premier ha rinunciato all'impossibile proposito. Altro non significa il ritiro dalla Striscia di cinque brigate, due corazzate, due di fanteria e una di paracadutisti, ovvero più o meno ventimila soldati.

Gli uomini servono nei posti di lavoro, per sopperire alla contrazione dell'economia, nel primo trimestre del nuovo anno è previsto un calo del Pil di Israele del 2 per cento. Quanti ne rimangano non è dato sapere visto che non sono mai state fornite cifre sul volume totale dell'invasione.

Ma se non bastava l'intera forza d'urto per annientare completamente la formazione terroristica, tantomeno il risultato si può raggiungere ora che è monca.

Per esemplificare, se è arrivato un clamoroso risultato dall’estero, a Gaza non va altrettanto bene. Non è stato ancora nè catturato nè ucciso Yahya Sinwar, il capo nonché ideologo della carneficina del 7 ottobre, indicato come obiettivo irrinunciabile.

Così come non è stato ancora rintracciato Mohammed Deif, il comandante delle brigate Ezzedin al Qassam, il braccio armato del movimento, ricercato da tempo immemorabile e regista dell'attacco ad Israele.

Il premier più longevo dello Stato ebraico, la cui reputazione era già precaria (eufemismo), aggrava il suo indice di popolarità sia tra i concittadini sia nel mondo intero con azioni e parole tanto sconsiderate da sembrare inudibili.

Ha lodato la «moralità» della guerra di difesa di un esercito che «fa di tutto per non colpire i civili». È pur vero che segnala i luoghi dove bombarderà, ma questo non ha impedito di contare a migliaia i morti tra donne, anziani e bambini il cui numero complessivo è superiore ai miliziani (il totale fa più di 21 mila).

Sebbene il calcolo sia approssimativo, Hamas può disporre ancora di almeno ventimila uomini in armi, combattenti che conoscono il terreno e possono contare per nascondersi su parte dell'infinita rete di tunnel che pure non è stata smantellata del tutto.

A cui bisogna aggiungere alcune migliaia di aderenti alla Jidah islamica, gruppo meno numeroso ma ugualmente temibile.

Certo, per non essere accusato di aver abbassato la linea dell'intransigenza, Netanyahu nelle sue previsioni ha esteso a tutto il 2024 la durata del conflitto, entrato nella “fase tre”, dopo i bombardamenti a tappeto dell'aviazione e l'offensiva di terra ora è tempo di azioni più mirate.

E il suo ministro della Difesa Yoav Gallant si è affrettato ad aggiungere: «La sensazione per cui staremmo per fermarci non è corretta. Se non prevaliamo in maniera netta non potremo resistere nel Medio Oriente».

Sono slogan obbligatori in un paese che ha subito un enorme trauma e che reclama sicurezza. Ma al netto della potenza di fuoco espressa restano nebulosi gli scopi, mentre è chiaro che alcuni obiettivi dichiarati sono sinora mancati.

Hamas non è stata annientata, ha ancora in mano come arma di ricatto circa 150 ostaggi il cui destino appare ogni giorno sempre più incerto. E non è chiaro quale sia la strategia per il dopoguerra.

L'occupazione della Striscia è stata esclusa, una coalizione internazionale garante se non della pace almeno della tregua pure. L'Autorità palestinese che sostituisce Hamas nell'amministrazione di Gaza è invisa a Netanyahu.

Le recenti guerre hanno insegnato, soprattutto agli Stati Uniti, che è molto pericoloso entrare in un conflitto senza sapere come uscirne. Pare questa la situazione in cui si trova oggi Israele.

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