Le partecipate manifestazioni pro Palestina, da alcuni incautamente definite per la pace nonostante la violenza dei toni e delle parole d’ordine, hanno mostrato, se ce ne fosse ancora bisogno, lo smarrimento in cui vive l’occidente. Definizione che non assumiamo in senso identitario, alla Fallaci per intendersi, ma con cui vogliamo indicare quell’occidente che ha promosso i grandi processi di emancipazione umana: dall’operaismo, al femminismo, fino alle più recenti battaglie Lgbtq+, tutte sigle presenti ai cortei di sabato scorso.

Non è solo perché i pacifisti plaudevano a figuri sinistramente incappucciati con passamontagna che bruciavano bandiere israeliane arrampicati sui monumenti delle principali piazze italiane. Non solo perché scandivano slogan che sono un vero e proprio incitamento alla guerra senza compromesso come «From the river to the sea», che può essere scambiato come un invito alla pace solo indicando l’esistenza stessa di Israele, cioè di uno Stato ebraico, come responsabile di tutti i mali dell’area. Lettura non solo ignorante, ma anche cieca di fronte agli sconvolgimenti che ha vissuto il Medio Oriente negli ultimi venti anni.

Lo stupore soprattutto emerge quando si vede il mondo progressista più radicale, persino woke, assecondare la propaganda che sfrutta il sempre buono canale umanitario che ha spazio per tutto e il suo contrario, di un movimento premoderno, che punisce l’adulterio con anni di prigione, persegue l’omosessualità come peccato mortale, che ha una concezione della donna che farebbe rabbrividire i nostri movimenti più tradizionalisti e che governa con logica mafiosa, riducendo la vita del proprio popolo a niente più che uno strumento di propaganda per consolidare il proprio potere personale. Anche ricorrendo a una mistica del sangue che evoca in noi i peggiori incubi passati.

Un movimento, è bene ricordarlo, che ha prosperato sulla sottrazione costante di risorse provenienti da tutte le parti del mondo, convogliate verso la formazione di un immenso arsenale bellico e verso la costruzione di una città sotterranea in venti livelli che non ha eguali nel mondo e, credo, nell’intera storia umana. Il tutto sotto gli occhi di agenzie sovranazionali che non si sono accorte di nulla (!).

Hamas non ha trovato solidarietà nel mondo arabo, dove nessuno ha mosso mezzo dito per aiutarla nella sua folle impresa di voler ribaltare l’assetto mediorientale per conservarsi il proprio feudo personale, ma l’ha trovata in una smarrita opinione pubblica occidentale, che ha rispolverato slogan post ’67 inneggianti a un panislamismo che esiste solo dalle nostre parti.

Oggi rivitalizzato dall’intersezione con una galassia post e decoloniale, che, se è di grande interesse culturale e di stimolo intellettuale, ripropone in molti casi elementi di rivendicazione identitaria da contrapporre alle logiche imperialistiche e assimilazionistiche occidentali, che, però, sono in perfetta continuità con quell’universalismo che i movimenti woke vorrebbero difendere. Insomma, un tale livello di contraddizione da far pensare che tutto questo amore per l’essere umano, invero così ristretto da escludere in toto conflitti persino peggiori che si stanno consumando in questi stessi mesi nell’assoluta indifferenza, poggi, in realtà, su una buona dose di odio antiebraico, male mai curato dell’intellighenzia occidentale, che non si è mai voluta confrontare con la portata regressiva del suo sguardo progressista e con i fantasmi che si agitano dietro il proprio sguardo umanitario. Vengono in mente le parole del 1996 del grande poeta palestinese Mahmoud Darwish rilasciate alla giornalista israeliana Helit Yeshurun: «Sai perché noi palestinesi siamo famosi? Perché voi siete il nostro nemico. L’interesse per la questione palestinese deriva dall’interesse per la questione ebraica... Se fossimo in guerra con il Pakistan, nessuno avrebbe sentito parlare di me».

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