L’ambasciatore e il suo carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci sono stati uccisi il 22 febbraio del 2021, e da qual momento l’inchiesta italiana ha incrociato quelle dei magistrati del Department of Safety and Security dell’Onu – per il coinvolgimento di dirigenti e dipendenti Pam (Programma alimentare mondiale) – e degli inquirenti congolesi.

I tre filoni hanno camminato su terreni molto accidentati e portato a una serie di accertamenti utili a capire qualcosa in più su quanto possa essere accaduto quella drammatica mattinata nella strada che da Goma porta a Rutshuru, nella provincia del Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo. Ma lasciano tuttora infiniti dubbi in quanto a scopo dell’agguato, mandanti ed esecutori.

La missione

Di certo si è compreso che molte cose nella predisposizione e nella realizzazione di quella missione sono andate clamorosamente storte: secondo le accuse i dirigenti del Pam Rocco Leone, vicedirettore per il Congo e all’epoca dei fatti direttore ad interim, e Mansour Rwagaza, responsabile di area, hanno gravemente «omesso le cautele» atte a garantire una adeguata sicurezza allo svolgimento del viaggio alterando, falsificando o presentando i rapporti propedeutici alle autorizzazioni in netto ritardo.

I due, unici iscritti nel registro degli indagati da Colaiocco, si appellano all’immunità diplomatica e rifiutano di rispondere. Anche sul risk assessment emergono questioni da verificare sia per quanto riguarda il comportamento del dipartimento di sicurezza del Pam, al cui vertice per il Congo c’era Hugh Long, sia per quanto attiene alla chiarezza dei regolamenti di safety e security previsti dalla Farnesina.

Ci sono poi molte perplessità attorno al ruolo dell’esercito regolare congolese (Fardc) e della Monusco, la forza di interposizione Onu odiata dalla popolazione locale che le rimprovera scarsa protezione e complicità in affari loschi, la quale, nel caso fosse stata istruita la pratica sicurezza in modo congruo, avrebbe ricoperto il ruolo di scorta armata.

L’inchiesta congolose

Ma se con le inchieste italiana e interna del Pam qualche progresso è stato fatto e una minima verità accertata – ma solo per quanto attiene alle mancate cautele e alla scellerata predisposizione della missione – sul lato congolese si ha la sensazione di un percorso che si incaglia nelle giungle della burocrazia, della poca trasparenza, della mancata collaborazione e del caos che regna assoluto nel paese, in modo particolare nel Kivu e nell’Ituri, estremo lembo orientale, dove sono in azione circa 150 milizie irregolari.

In Congo, a quanto riferiscono fonti interne alla procura e le carte sembrano confermare, i nostri investigatori sostanzialmente non sono mai entrati in partita.

I carabinieri del Ros, che nei giorni successivi all’omicidio erano a Goma, la capitale del Nord Kivu, hanno fatto ritorno a casa senza il minimo risultato per mancanza di autorizzazioni. A ciò si aggiunge che alle due rogatorie inviate a maggio e settembre la procura di Roma non ha mai ricevuto risposta.

Sono passati quasi 14 mesi da quel tragico 22 febbraio e gli interrogativi, piuttosto che dissiparsi, aumentano. Alle cerimonie organizzate in memoria dell’ambasciatore a un anno dal tragico evento a Limbiate, suo paese d’origine dove vivono tuttora i genitori, al di là delle commoventi testimonianze di parenti, amici e collaboratori portate presso il teatro della cittadina e davanti alla tomba, si respirava un’aria di impazienza: un anno dopo, regna il buio fitto riguardo mandanti, movente ed esecutori materiali.

Le ipotesi della semplice rapina per estorcere qualche decina di migliaia di dollari, finita male, o di un tentativo di rapimento a scopo di riscatto, senza uno straccio di evidenza, creano, se possibile, maggiore disagio.

Gli arresti

Le autorità congolesi a quanto risulta dagli atti e dalle dichiarazioni ufficiali hanno vantato nel primo anno di indagini tre serie di arresti. La prima è stata annunciata all’interno di una lunga intervista rilasciata ad Africa News dal presidente della Repubblica Democratica del Congo Felix Tshisekedi a maggio.

«A un certo punto, abbiamo avuto alcuni sospettati che sono poi stati arrestati» ha detto al giornalista François Chignac, subito innescando agenzie di tutto il mondo che battevano la notizia della cattura degli organizzatori e degli esecutori dell’assassinio dell’ambasciatore italiano e della sua scorta. Peccato che si trattava di un gruppo di sbandati che sarebbero stati rilasciati di lì a poco perché assolutamente estranei ai fatti.

A gennaio scorso, il comandante di polizia del Nord Kivu, generale Aba Van Ang, ha invece annunciato l’arresto di sei presunti componenti del commando che avrebbe progettato ed eseguito l’agguato del 22 febbraio. Secondo l’ufficiale i sei giovani erano parte di una banda armata denominata Aspirant a capo della quale ci sarebbe stato un settimo indiziato risultato latitante.

La notizia, diramata a seguito di una conferenza stampa improvvisata dallo stesso Van Ang dal giardino della gendarmeria sul cui prato sedevano ammanettati e scalzi i sei arrestati, non confermata a livello politico da Kinshasa, ha fatto il giro del mondo.

Ma dopo qualche timido entusiasmo, ha suscitato più dubbi che certezze: sono davvero quei sei ragazzi vestiti approssimativamente e buttati sul prato del posto di polizia, i componenti di una spietata banda che, secondo testimonianze incrociate, era dotata di armi sofisticate e si era accampata in attesa del convoglio dal pomeriggio del 20 febbraio 2021?

Alla notizia degli arresti, comunicata in modo informale ai nostri inquirenti, l’ambasciata a Kinshasa si è attivata per chiedere informazioni mentre la procura di Roma ha avviato le proprie verifiche intenzionata, come riporta l’Ansa in una agenzia del 19 gennaio scorso, a «chiedere, per vie ufficiali, i verbali delle dichiarazioni rese dagli arrestati». Che queste carte siano mai arrivate è tutto da dimostrare. Di certo non ve n’è traccia nel fascicolo anche perché, pochi giorni dopo – l’8 febbraio – il procuratore Colaiocco ha chiuso l’inchiesta.

Il 28 febbraio scorso, infine, la polizia congolese ha dichiarato di aver fermato un gruppo di malviventi in azione nell’area di Goma. Secondo gli investigatori, fra questi, ci sarebbe un elemento della banda che avrebbe assalito il convoglio su cui viaggiavano Attanasio, Iacovacci e l’autista Milambo.

Nella conferenza stampa di annuncio del nuovo arresto non si fa menzione di quale, tra i componenti del gruppetto, sia quello che avrebbe preso parte all’agguato. Anche in questo caso, da Kinshasa, silenzio assordante.

Tutto, quindi, resta nel vago e le ipotesi avanzate a proposito del movente oscillano tra il sequestro con richiesta di un milione di dollari come riscatto, all’agguato a scopo di rapina per una somma di 50mila dollari. Di certo, rispetto alla prima operazione annunciata dal presidente Tshisekedi a maggio, queste di gennaio e febbraio, sembrano presentare elementi minimamente più probanti.

Fonti interne della Farnesina assicurano la credibilità della pista imboccata dall’inizio dell’anno dagli inquirenti congolesi. Non sono pochi, invece, tra quelli che seguono il caso, a mantenere un buon livello di scetticismo corroborato anche dalla mancanza di una presa di posizione politica e del conseguente appoggio da parte di Kinshasa che, su un tema così delicato come la cattura degli assassini di un ambasciatore di uno stato europeo, continua a latitare.

Gli altri arresti

Ma dalla lettura delle carte del fascicolo italiano, emerge la notizia di altri arresti eseguiti nelle ore successive al drammatico evento, di cui fino a oggi nessuno aveva mai parlato e che non hanno mai guadagnato la ribalta dell’annuncio ufficiale delle varie procure coinvolte nell’inchiesta né della politica.

Eppure aprono uno squarcio su una vicenda su cui varrebbe la pena fare più luce. Come risulta da fonti vicinissime all’inchiesta congolese, infatti, immediatamente dopo l’agguato si era proceduto al fermo di alcune persone: elementi che avrebbero fornito ospitalità ai presunti esecutori, poi un uomo, effettivo dell’intelligence, che ha prelevato materiale dalle macchine su cui viaggiavano l’ambasciatore e il carabiniere, tra cui la valigetta di quest’ultimo, e infine una serie di persone prelevate dall’ospedale locale perché trovate con ferite da arma da fuoco.

I feriti, ascoltati perché uno degli assalitori era stato visto fuggire con grosse perdite di sangue, sono stati poi rilasciati perché ricoverati da prima dell’attentato. Oltre a questa prima “retata”, sempre nella stessa giornata del 22 febbraio 2021 sono stati arrestati anche elementi delle Fardc, uno dei quali reo di aver rimosso senza giustificazione apparente un posto di blocco allestito a causa di ripetuti sequestri avvenuti proprio qualche settimana prima nel tratto di strada poi percorso dal convoglio.

Elementi delle forze armate congolesi, inoltre, come sostenuto da testimoni attendibili e riportato dalla carte, sarebbero sospettati di essere in collegamento con le Forze democratiche di liberazione del Ruanda (FdlR) una milizia di etnia Hutu, in azione nell’area, tra i protagonisti del caos totale in cui versa la regione del Kivu del Nord in cui, dal maggio 2021, è in atto lo stato d’assedio che ha decretato il passaggio del potere esecutivo e giudiziario ai militari.

Su tutti questi personaggi, arrestati o solo sospettati che fossero, già dal giorno dopo sembra essere calata una sorta di immunità che ha condotto al rilascio o allo stralcio.

Come mai? I capi d’accusa, a quanto risulta, sarebbero stati almeno meritevoli di ulteriori indagini da parte degli inquirenti congolesi. Ma anche da parte degli italiani, una volta venuti a conoscenza di tutto qualche mese dopo l’agguato.

Tanto più che le testimonianze depositate e a disposizione degli inquirenti contribuiscono a ricostruire un impianto attorno a movente e mandanti forse non immediatamente probabile, ma di certo degno di approfondimento.

Le ipotesi avanzate dai testimoni e verbalizzate riporterebbero a un agguato organizzato nei minimi dettagli – il commando, come ampiamente verificato, si trovava in loco già due giorni prima e disponeva di molte armi alcune delle quali sofisticate – a cui avrebbero contribuito elementi deviati dell’esercito e dei servizi di polizia congolesi.

A quale scopo? Per innescare, questo sostengono le fonti, una sorta di strategia della tensione, attribuire alle famigerate FdlR (che sono state subito tirate in ballo dalle autorità di Kinshasa) la paternità dell’azione omicida e contribuire così alla loro eradicazione definitiva dall’area date la penetrazione e la progressiva conquista di territorio conseguite dalle stesse.

Che non si trattasse di tentativi di rapina o sequestro improvvisati, ma che ci fosse qualcosa di molto più grande dietro l’ideazione di un agguato ben preparato lo indicherebbe un dato segnalato nel fascicolo: poche ore prima del drammatico evento, un convoglio di operatori umanitari europei è transitato indisturbato nello stesso tratto di strada dove erano accampati da due giorni gli esecutori.

Un ultimo elemento relativo alle ore e ai giorni immediatamente successivi che emerge dalle carte e che solleva dubbi è il fatto che la richiesta dei tabulati telefonici inoltrata dagli inquirenti congolesi per controllare i flussi dei militari sospetti o arrestati, sarebbe stata negata dai dirigenti delle aziende di telefonia mobile in modo del tutto irrituale. In ultima analisi, le persone che hanno riferito di questa serie di fatti alludono all’ipotesi di un possibile depistaggio a opera di livelli congolesi più alti.

Il fronte politico

LaPresse

Gli elementi qui sopra descritti provengono da varie testimonianze di individui congolesi a vario titolo vicini all’inchiesta. È normale, probabilmente, mantenere tutte le cautele del caso, soprattutto a causa della situazione di anarchia pressoché totale che regna nell’area e della difficoltà di verifica.

Alcune ricostruzioni, poi, rasentano la fantapolitica e risultano di difficile evidenza. Da qui a ignorarle del tutto, però, ci passa molto. C’è qualche elemento ulteriore intercorso nello svolgimento delle indagini che porta a escludere totalmente questa pista? Dalle lettura delle carte non sembra essercene traccia. Eppure la pista non è stata coltivata.

Sul fronte politico, c’è poi un tema di grande rilievo che desta riflessione, l’atteggiamento del presidente Felix Tshisekedi e, più in generale, le relazioni tra l’Italia e la Repubblica Democratica del Congo. Dopo gli omicidi, il capo di stato africano è venuto in Italia due volte: ha incontrato in una visita ufficiale il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e, in occasione del G20 a Roma, il premier Mario Draghi.

Fonti interne alla Farnesina riferiscono che in tutti e due i casi il presidente congolese ha affrontato con le nostre autorità la questione Attanasio-Iacovacci. Stando però a quanto dichiarato dai nostri inquirenti e riportato nel fascicolo della procura, l’inchiesta fatica a fare progressi per la pressoché totale assenza di collaborazione delle autorità congolesi.

È possibile allora che in un anno di relazioni, visite e incontri qui da noi «improntati alle massime cordialità e cooperazione» non si sia riusciti a ottenere sostegno fattivo alle indagini? Un appoggio politico ai nostri inquirenti che lamentano, oltre alla mancanza di collaborazione, l’invio di due rogatorie senza il minimo esito? In uno di questi passaggi in Italia, il 2 settembre, Tshisekedi è stato ricevuto al Quirinale.

Al colloquio era presente la viceministra degli Esteri Marina Sereni. Questo giornale, saputo da fonti congolesi di una probabile visita del presidente del Congo in Italia, ha provato a richiedere un’intervista tramite la nostra ambasciata.

Agli inizi di agosto il ministro plenipotenziario Fabrizio Marcelli, in servizio a Kinshasa, rispondeva che la richiesta sarebbe stata inoltrata al gabinetto del presidente ma che ancora non si conosceva la data della visita. Meno di un mese dopo Tshisekedi era a Roma per una visita lampo che non lasciava spazio a incontri con altri esponenti del governo. La visita, nel frattempo, si tingeva di giallo. In una nota ufficiale della presidenza congolese, riportata il 2 settembre da Agenzia Nova, si parlava di un incontro «questa mattina in Vaticano con papa Francesco», molto probabilmente mai avvenuto visto che non esiste alcun riscontro negli organi ufficiali della Santa Sede.

© Riproduzione riservata