È ancora lunga e tortuosa la strada per una azione globale sull’emergenza Amazzonia, lo dimostra il fatto che nemmeno i paesi della regione riescono a mettersi d’accordo sul da farsi. Questa settimana si è tenuto a Belém, nel nord del Brasile, un summit tra i capi di stato degli otto paesi del Sudamerica. Iniziativa proposta dal brasiliano Lula nell’ultima Cop27 di Sharm El-Sheikh, già che la cupola del clima 2025 (Cop30) sarà proprio qui, nella città porta d’accesso dell’Amazzonia.

A novembre lo storico leader brasiliano era già stato eletto alla presidenza, ma non si era ancora insediato. Il rilancio della buona volontà del paese che governa su oltre il 60 per cento della foresta suonava come momento di svolta dopo gli anni del negazionismo ambientale e sanitario della presidenza Jair Bolsonaro. Segnale al quale è seguito il ritorno al ministero dell’Ambiente di Marina Silva, storica compagna di battaglie per la difesa della foresta.

Promesse disattese

A nove mesi dalle promesse sul mar Rosso e dal cambio di rotta è già possibile fare un primo bilancio. Con i parecchi ostacoli che si sono frapposti lungo il cammino.

«Non è possibile, nel pieno della crisi climatica che sta attraversando la Terra, che otto paesi amazzonici non siano riusciti a scrivere in una dichiarazione che la deforestazione deve arrivare a zero il tal anno e che estrarre petrolio nel mezzo della foresta non è una buona idea».

Marcio Astrini, segretario dell’Osservatorio del clima, organizzazione ombrello di 80 entità brasiliane, si riferisce ai due grandi obiettivi mancati del summit di Belém. Per opposizione della Bolivia, la dichiarazione finale non è riuscita a porre una meta concreta di deforestazione zero, limitandosi a definirla “un ideale”.

In teoria i grandi paesi del continente sono d’accordo da tempo sul 2030 come anno in cui finalmente si dovrebbe azzerare la distruzione della copertura forestale. Alla Cop26 (Glasgow 2021) persino il governo Bolsonaro aveva confermato gli impegni assunti dal Brasile con l’Onu sette anni prima. La Bolivia invece è un paese dove lo stimolo del governo (di sinistra) per conquistare terra all’agricoltura e alla estrazione di minerali non è nemmeno camuffata. Ha perso il 10 per cento della sua foresta pluviale negli ultimi vent’anni, superando il Brasile. A Belém non si è voluta impegnare a fermarsi con una meta così ravvicinata come il 2030.

«Se il Brasile riuscisse a dimezzare nel 2023 gli indici dello scorso anno, la strada per conquistare l’obiettivo zero nel 2030 non sarebbe nemmeno tanto difficile», sostiene il climatologo Carlos Nobre, il più importante esperto brasiliano sul tema. Le sue teorie sul punto di non ritorno e sulla “savanizzazione” della foresta pluviale sono ormai consenso nei summit politici sul clima. Vero è che nella dichiarazione finale di Belém l’espressione «evitare il punto di non ritorno» è usata quattro volte, e si ritiene che questo possa accadere quando si superi il 20 per cento della copertura pre colonizzazione (non ci siamo molto lontani), ma la mancanza di scadenze e numeri certi non è di poco conto.

Anche a Belém, come in occasioni precedenti, la pressione della società civile e della militanza ambientalista sulla politica è stata forte ma, come sempre accade, in tanti sono tornati a casa delusi.

In cerca di petrolio

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L’altra grande questione insoluta è l’esplorazione petrolifera. Il governo brasiliano è diviso tra chi appoggia un progetto della statale Petrobras di trivelle nell’Atlantico appena al largo delle foci del Rio delle Amazzoni, e chi vi si oppone. Lula ha dichiarato di essere favorevole alla proposta, la sua ministra Marina Silva è assai contraria, insieme a tutto l’universo ambientalista. In una occasione il leader brasiliano ha persino moltiplicato per quattro la distanza tra le future piattaforme e la foresta, dicendo che «l’Amazzonia è molto distante, non vedo il problema».

La posizione più dura contro questa ipotesi, al summit di Belém, è stata quella del governo colombiano. Il presidente Gustavo Petro ha accusato la sinistra del continente, alla quale pure appartiene, di negazionismo climatico. «Per i governi di destra c’è una facile scappatoia, perché negano la scienza. Per noi progressisti c’è un altro trucco, negare parlando di transizione, per giustificare la prosecuzione degli investimenti in combustibili fossili», ha attaccato Petro. Il presidente della statale brasiliana, Jean Paul Prates, in precedenza aveva sostenuto che «poiché l’uso del petrolio durerà certamente ancora alcuni decenni, il modo migliore è usare i suoi profitti per finanziare la transizione energetica».

Tra i pochi punti di consenso della conferenza di Belém c’è l’impegno contro la ricerca illegale di oro nella foresta, che crea corruzione e porta malattie ai popoli indigeni, oltre a contaminare le acque di mercurio. Una delle prime azioni del governo Lula, a gennaio, è stata l’operazione di polizia per espellere migliaia di garimpeiros (cercatori d’oro) dal territorio degli indios Yanomani, al confine tra Brasile e Venezuela. Il documento oggi riconosce i diritti della popolazioni indigene a essere consultati sui progetti che riguardano le loro terre.

Un cambiamento difficile

Dopo gli anni del bolsonarismo e del “liberi tutti” in Amazzonia, la situazione dei controlli e delle multe sta gradualmente tornando alla normalità, ma gli effetti si misureranno solo nel tempo.

Gli ultimi dati satellitari sull’Amazzonia brasiliana indicano una forte riduzione della deforestazione (meno 33 per cento nei primi sei mesi) ma un preoccupante aumento del 21 per cento nel cosiddetto cerrado, il bioma di transizione verso la foresta umida, una sorta di savana ancora più fragile secondo gli esperti. Il cerrado, soprattutto nello stato del Mato Grosso, è la frontiera agricola, dove si tagliano alberi e si brucia foresta per espandere la produzione. In questa area il governo Lula non sta riuscendo ancora a imporre la legge contro lo strapotere dell’agrobusiness.

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