«Scusa, tu che sei ebreo mi spieghi come faccio a dire che il governo e l’esercito israeliano si macchiano di comportamenti criminali senza passare per antisemita»? Per rispondere all’interrogativo, Gad Lerner, tra le più icastiche penne del nostro panorama, ha scritto un libro su un tema incandescente: Gaza.

Lo ha redatto con grande libertà, premettendo che gli è toccata la parte «dell’ebreo buono» che «difende Israele, ma ha anche il coraggio di parlarne male», ed è per ciò stesso in equilibrio tra due precipizi dove è possibile piombare per una semplice parola in fallo: l’assunzione del proprio sionismo («di fronte alla domanda secca: tu sei sionista? Sei ancora sionista? La mia risposta rimane un sì. Se non altro perché anche nell’esperienza della mia famiglia Israele rimane sinonimo di salvezza»), e la rivendicazione della critica allo stato di Israele: con l’idea che l’autodeterminazione sia riservata «esclusivamente» al popolo ebraico «non si va da nessuna parte» (tutti i corsivi sono presenti nel testo, ndr).

Si tratta di una lettura preziosa nell’avvelenato dibattito sugli orribili attacchi del 7 ottobre e sulla terribile risposta che ne sta seguendo a Gaza. Tanto più che «si è inceppato il meccanismo della reciproca comprensione», e tra una destra che si è appropriata della causa sionista, erta a vessillo dei nazionalismi, e una sinistra che talvolta simpatizza con forze autoritarie e teocratiche, lontanissime dai propri ideali costitutivi, non è facile orientarsi, come si riscontra finanche nelle nostre università.

Una preziosa bussola

Il volume di Lerner rappresenta dunque un indispensabile ponte e una preziosa bussola, nonostante il suo polo magnetico, la soluzione cosiddetta «dei due stati», registri oggi una forza attrattiva ridotta, quanto meno nel corto o medio raggio.

Parte di questa disillusione è ascrivibile tanto al governo israeliano quanto all’ascesa del «nemico ideale». In fondo, come spiegato con lucido disincanto nel volume, «il mondo non avrebbe mai accettato uno stato palestinese con il marchio Hamas», ragione per cui lo stallo (apparente) precedente al 7 ottobre 2023 era ben accetto dall’attuale establishment israeliano. A condizione, però, «di una vera e propria rimozione di massa della questione palestinese».

Ciò premesso, le pagine del volume che ho maggiormente apprezzato sono quelle più intime, in cui si racconta di un’intervista a un titubante Primo Levi di trentanove anni prima.

Sollecitato sulle politiche militari israeliane, lo scrittore, superstite dell’Olocausto, argomentava come il baricentro dell’ebraismo non dovesse rintracciarsi primariamente in Israele, qui inteso come stato-rifugio, quanto nella diaspora, una «storia di tremila anni… di persecuzioni, ma anche di scambi e di rapporti interetnici, quindi una storia di tolleranza». Svuotare questa matrice avrebbe comportato dilapidare quel patrimonio di comprensione e di solidarietà internazionale che la causa dell’ebraismo meritava e merita di ricevere.

Costruire schieramenti

È quanto sta accadendo proprio in questi mesi, in cui l’autore rivela di essere stato più volte «fermato per strada da persone che volevano mostrarmi le immagini atroci ricevute sui loro smartphone, con invito a condividerle».

Lerner confessa di essersi sempre «rifiutato di guardarle», e non certo per auto limitazione, quanto perché in esse ravvisava il tentativo di «costruire schieramenti sulla base di emozioni primitive».

Diversamente, secondo l’autore, per formarsi un’opinione è preferibile leggere testimonianze attendibili, o, come diremmo noi giuristi, certificate da terzi (l’intero fenomeno giuridico può essere riassunto come: l’entrata in scena del terzo).

Ma è proprio su questo versante che desidero presentare alcune osservazioni critiche a un volume che, tengo a precisarlo, ho molto apprezzato, e che ritengo tanto opportuno quanto coraggioso.

A me pare che nella lucida analisi di Lerner ci sia un grande assente: il diritto, nella specie internazionale.

Il diritto internazionale

Nonostante la questione israelo-palestinese sia al centro di innumerevoli atti, risoluzioni e pronunce, e questo ben prima del 7 ottobre 2023, le Nazioni unite fanno capolino in una fase avanzata del volume, per contrastare una poco credibile ricostruzione di Hamas; i crimini internazionali di cui è sospettato l’esercito israeliano sono rubricati dapprima come «effetto collaterale», e solo dopo come «sistematici crimini di guerra»; non sono mai menzionati i «crimini contro l’umanità» (nonostante alcune condotte siano qualificate come tali nelle richieste dei mandati di arresto); e quanto alle misure cautelari ordinate in relazione alla contestata violazione della Convenzione sul genocidio, per ben due volte reiterate dalla Corte internazionale di giustizia nei confronti di Israele, anche senza entrare nella vexata quaestio del dolo specifico, sarebbe stato opportuno sottolineare quanto meno le condotte materiali sotto la lente dei giudici, come il «sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale», privandolo, ad esempio, di acqua, cibo e/o medicine.

Beninteso, quella del giurista non è la professione di Lerner, che si dichiara forestiero in questi territori. Tuttavia, se «sarebbe facile ironizzare su una nuova Internazionale nella quale i palestinesi senza terra e i diseredati di tutto il mondo dovrebbero militare insieme con le milizie islamiche», sarebbe invece quanto mai serio immaginare una nuova “Internazionale delle vittime”, unite e supportate nella domanda di giustizia rivolta alle corti internazionali.

Sono ben d’accordo con la chiusura, elegante e letteraria, dell’autore: «Lo specchietto retrovisore va usato quanto basta». Guardiamo dunque «anche gli altri, per favore, guardiamo in avanti». Ma adoperiamo anche le lenti del diritto internazionale: è attraverso di esse che si riconoscono le regole comuni.

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