Lo scorso 12 febbraio si è concluso con sentenza di non luogo a procedere il processo aperto dalla procura di Roma per accertare le responsabilità di Rocco Leone e Mansour Rwagaza, dirigenti del Pam (Programma alimentare mondiale) nella predisposizione della missione del 22 febbraio 2021, nella quale il nostro ambasciatore Luca Attanasio e il carabiniere di scorta Vittorio Iacovacci, assieme all’autista congolese Mustapha Milambo, trovarono la morte nella regione del Kivu del Nord, Repubblica Democratica del Congo (Rdc). La sentenza è figlia della immunità diplomatica di cui godono i due funzionari Onu.

Per oltre tre anni di indagini, si è ritenuto che ci fossero state omissioni, inadempienze, malversazioni. Dietro le scelte di Leone e Rwagaza di quel maledetto giorno, in realtà, si potrebbero celare altre motivazioni, un’orchestrazione degli eventi non del tutto casuale che per la prima volta, in esclusiva per Domani, emerge grazie a Dario Tedesco, vulcanologo, docente dell’Università della Campania, esperto per le Nazioni Unite-Monusco (United Nations Stabilization Organization Mission), tra i massimi conoscitori del vulcano Nyiragongo in Congo (dove lavora da decenni) e grande amico di Luca Attanasio.

Il vulcanologo, tra gli ultimissimi a vedere vivo l’ambasciatore, prese parte alla cena presso il ristorante Mediterraneo di Goma gestito dall’italiano Michele Macri, con il diplomatico, il carabiniere di scorta Iacovacci, ambasciatore e console russi e lo stesso Rocco Leone nella serata del 21 febbraio 2021.

A Domani rivela particolari inediti e inquietanti. Pur essendo una delle persone più informate dei fatti, non è stato incredibilmente mai ascoltato da nessuno degli inquirenti italiani e congolesi, né da esponenti del nostro governo e non sono state mai pubblicate per intero sue dichiarazioni.

Cosa è successo nella giornata e poi nella serata del 21 febbraio 2021?

Luca ha voluto fermarsi a Goma per tre motivi. Innanzitutto voleva un incontro con tutti gli italiani dell’area per avere notizie, aggiornarci su progetti e novità e per salutarci perché nell’estate del 2021 avrebbe lasciato il Congo. Poi aveva chiesto a me una discussione privata a cui ha preso parte solo Iacovacci, che lo seguiva ovunque. Mi chiedeva informazioni su una rosa di tre candidati a diventare console onorario, io espressi in piena libertà il mio parere indicando una persona come la migliore, una come discreta e una improponibile. Luca cercava conferme perché la pensava esattamente come me.

E il terzo motivo?

È il più importante, a mio avviso alla base di quanto successo il giorno dopo. Luca è venuto a Goma da Kinshasa e da lì, il 20 febbraio, con un battello si è recato a Bukavu, nel Sud del Kivu, per ispezionare un progetto gemello a quello di Rutshuru. Era un refettorio con una scuola, finanziati dalla Ong Mama Sophia (fondata assieme alla moglie Zakia, ndr) e affidato al Pam per l’implementazione. Arrivato lì, Luca ha scoperto che i fondi erano stati spesi e che per il progetto era rimasto ben poco. Doveva essersi veramente arrabbiato, mi disse di aver perso le staffe per la prima volta in vita sua, “non hanno fatto nulla, i soldi sono andati a farsi benedire”. Più tardi un altro italiano che era a Bukavu mi riferì che un giovane impiegato del Pam gli avrebbe detto: “L’ambasciatore era fuori di sé”».

Con chi ce l’aveva?

«Con il PAM e molto probabilmente con Rocco Leone. Era lui il numero due e probabilmente proprio perché Rocco era un amico di Luca l’implementazione del progetto era stata affidata al Pam nella certezza che i fondi sarebbero stati usati bene. Luca si fidava moltissimo di Leone, e quella sera mi disse di non essere arrabbiato, ma profondamente deluso, lo considerava un vero amico. A quel punto era chiaro che bisognava vedere cosa stesse succedendo all’altra gamba del progetto, quella nel Kivu del Nord a Rutshuru. Per questo Luca, che sarebbe dovuto venire con me, con l’ambasciatore e il console russi sul vulcano per prendere visione dell’attività del vulcano stesso, decise di partire per Rutshuru e verificare con i suoi occhi».

La cena quindi fu molto tesa?

Non particolarmente, Luca era di buon umore e come al solito ottimista. C’erano l’ambasciatore e il console russi, Leone e ovviamente Macri, il gestore del ristorante, non sempre seduto con noi. Dietro a Luca, in piedi, c’era Iacovacci. A tavola durante la cena, chiesi a Rocco Leone: “In quanti siete e quante macchine?”. Mi rispose: “In sette con due macchine”, “Solo due? Immagino che una sia di scorta…”, replicai. “No” mi disse, e io risposi: “Non posso crederci”. E Leone: “La strada è stata dichiarata green, abbiamo avuto la clearance (l’ok della sicurezza dell’Onu per procedere senza scorta, ndr), non c’è alcun pericolo”. Risposi che la strada poteva essere considerata green forse per lui, non per un diplomatico. Lui rispose che le Nazioni Unite non avevano sollevato alcuna eccezione. Mesi dopo, chiesi al responsabile delle Nazioni Unite per la sicurezza di vedere il documento che autorizzava la clearance e mi fece notare che mancavano i nomi di Attanasio e Iacovacci: l’ok era stato dato perché nessuno sapeva che avrebbe viaggiato un ambasciatore.

Quindi per lei c’è più che negligenza oppure “omesse cautele”?

Non sono un magistrato e parlo solo di ciò che conosco. È ovvio che non richiedere la scorta sia stato fatto di proposito, la Monusco (forza di interposizione Onu, ndr) avrebbe subito fornito le macchine se avesse saputo che a viaggiare era un ambasciatore. Il fatto è che ufficialmente non l’ha mai saputo. Inoltre, alla Monusco, non è mai arrivata richiesta di scorta, come faceva a immaginare di predisporla? Quindi la sola e vera domanda da porre è: perché non è stata chiesta la scorta? Anche un bambino sa che non si può viaggiare senza scorta in quelle zone. Io, qualche mese prima con un team italo-francese, ho ricevuto tre macchine di scorta per effettuare misurazioni sull’attività vulcanica, e non sono un diplomatico.

Se non è stata negligenza, di cosa si è trattato?

La mia idea è che Leone, sebbene fosse il capo, ignorasse che quei due progetti fossero stati “trascurati” e che i fondi fossero stati spesi. E quando ha constatato il disastroso stato del primo progetto ha temuto che se Luca fosse arrivato a vedere anche il secondo sarebbero stati guai veri. Dopo la morte di Luca un rappresentante della Monusco mi riferì che il progetto a Rutshuru era in condizioni simili a quello del sud Kivu. Inoltre, l’estate scorsa una esperta che lavorava al Pam mi ha riferito che quei due progetti erano spariti dal database del Pam e non erano più consultabili. Parlandone con i tanti italiani a Goma, che ben conoscevano la situazione, abbiamo avuto tutti la tragica idea che chiunque abbia organizzato quel viaggio a Rutshuru, abbia pensato a un deterrente perché la missione non andasse a compimento. Detto in parole crude far impaurire l’ambasciatore e farlo tornare indietro o comunque farlo recedere da ulteriori accertamenti. Non ho mai pensato che si volesse arrivare a quanto è accaduto. Purtroppo, la cosa è sfuggita di mano quando l’autista Milambo è uscito dalla macchina e gli hanno subito sparato. Il grave problema di Luca è che si fidava ciecamente delle persone, in particolare di quelle che lui riteneva vicine a lui.

È un’accusa pesante.

Non è un’accusa. È quello che noi italiani a Goma abbiamo pensato sin dal primo momento. Non so se ci sono altre spiegazioni che gli inquirenti hanno vagliato. Questa mi sembra che abbia senso e poi ci sono altre cose strane. Appena arrivato a Goma, ero ancora in elicottero quando il capo della Monusco, con me in quella missione, ha ricevuto l’informazione dell’incidente e mi ha chiesto di seguirlo all’ospedale Onu, speravamo che Luca fosse ancora vivo. Incontrammo anche Macri, un altro italiano e dopo un poco è arrivato Rocco Leone direttamente dal sito dove era avvenuto l’incidente. Era vestito di bianco, intonso, lui, unico bianco sopravvissuto all’attacco. Dopo scoprimmo che aveva dichiarato alle autorità di essersi buttato a terra per salvarsi e di aver strisciato per non farsi vedere.

Perché lei, che è tra le persone più informate e più vicine a Luca Attanasio, non è stato mai ascoltato?

Non saprei proprio cosa dirle. È tra le tante cose strane che gravano attorno alla morte di Luca e Vittorio. I Ros sono venuti subito dopo l’agguato e sono anche ritornati in Congo ma non hanno mai ritenuto opportuno contattarmi. Non credo sapessero cosa avevo da dire ma quando si cerca qualcosa, immagino che si sentano tutti quelli a disposizione. Posso immaginare che non abbiano mai saputo che fossi in loco o in Italia, e soprattutto che conoscessero la mia totale disponibilità. Io sono senza dubbio l’ultima persona al di là dei membri della missione a Rutshuru ad aver parlato con Luca, pensavo che ascoltarmi non avrebbe probabilmente risolto il caso ma avrebbe potuto fornire qualche spunto a chi doveva indagare.

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