La condizione dei migranti è peggiorata con la pandemia causata dal Covid-19. Vivevano ai margini e con il virus sono stati isolati e emarginati ancor di più. Soprattutto in Libia, dove sostano prima della partenza per l’Europa. Chi non finiva rinchiuso in un centro di detenzione riusciva a lavorare in nero. «Ma il Covid ha complicato le cose», dice Vincent Cochetel, inviato speciale dell’Unhcr per il Mediterraneo centrale, che racconta una situazione sempre più difficile che deve fare i conti con l’indifferenza europea.

Qual è oggi la situazione dei migranti nel Mediterraneo centrale?

In paesi come l’Algeria, la Tunisia e la Libia, il Covid-19 ha avuto un impatto pesante sulla vita quotidiana dei migranti innanzitutto da un punto di vista sanitario: in questi stati chi non ha la cittadinanza non ha potuto avere accesso alla rete di welfare sociale né ai servizi sanitari, ovviamente essenziali in un periodo di pandemia. Inoltre, molti migranti lavoravano in nero e ora si trovano senza nessuna forma di paracadute sociale.

Tutti i paesi hanno risposto allo stesso modo?

I problemi sono stati comuni, ma non tutti gli stati hanno reagito allo stesso modo: in Marocco le autorità hanno compreso che aiutare chi si trovava sul territorio era di interesse pubblico  e ci sono stati diversi sforzi per curare queste persone; viceversa in aree come quella di Tripoli le persone sono state totalmente abbandonate a se stesse in una situazione sanitaria pericolosissima se pensiamo che in media un migrante in quelle zone vive in un dormitorio con altre venti persone.

I problemi però non sono solo di natura sanitaria…

Purtroppo, no: la vera grande emergenza è quella di persone che finora lavoravano spesso senza essere dichiarate e senza alcuna forma di paracadute sociale. Questi individui si trovano ora senza possibilità di guadagno e pagano le conseguenze delle politiche interne dei paesi nordafricani che non prevedono tutele per chi non è loro cittadino né concedono facilmente la cittadinanza. Ho visto con i miei occhi la disperazione di queste persone: il portiere del mio palazzo, per esempio, è arrivato in Tunisia dopo essere partito dalla Cosa d’Avorio, suo paese natale, e si trova ora in una situazione totalmente precaria in cui non può contare in alcun modo sull’aiuto della comunità. Una delle cose che più credo debba farci riflettere è che, come mi ha spiegato, per lui è oggi meno costoso mettersi in viaggio verso l’Europa piuttosto che tornare nella sua terra d’origine.

E la popolazione locale? Come ha reagito?

La pandemia ha accentuato le discriminazioni già presenti verso i migranti provenienti dai territori sub sahariani. Molti nordafricani hanno accusato i migranti di essere portatori del virus. Una credenza che è arrivata fino a richieste estreme come quelle di buttare letteralmente fuori dai propri i territori i migranti fino ad allora presenti. Si tratta di un dramma che ha radici profonde in certi atteggiamenti razzisti delle popolazioni del Mediterraneo centrale dove molte persone accusano i migranti sub sahariani di venire nei loro territori per “rubare il lavoro”. È un atteggiamento molto simile a quello che gli xenofobi europei hanno verso i migranti che riescono ad arrivare nel nostro continente. Credo che queste visioni siano da far risalire alla tratta degli schiavi e al senso di superiorità che sia gli europei sia i nordafricani hanno verso queste etnie.

Nel frattempo a novembre è iniziato il conflitto nella regione etiope del Tigray. Che impatto può avere questo conflitto sulle rotte migratorie?

La situazione nel Tigray è molto preoccupante e sta già spingendo decine di migliaia di profughi eritrei ed etiopi a rifugiarsi nel Sudan che già dal 1967 accoglie profughi di questi paesi senza avere però mai riconosciuto a queste persone il diritto di lavorare. È chiaro che alcuni migranti si muoveranno dal Sudan e si rifugeranno in altri paesi. Penso soprattutto all’Egitto dove esistono già molte comunità eritree e quindi sarebbe semplice per queste persone trovare una rete sociale accogliente.

La situazione in Libia sembra essere, però, quella più critica.

Sicuramente quella in Libia è una situazione in molti casi drammatica. Attualmente sono solo otto i centri di detenzione per migranti in funzione. Questo significa che spesso le persone riportate a riva dalla Guardia costiera libica non finiscono nei centri di detenzione, ma questa non è necessariamente una buona notizia perché vuol dire che chi oggi viene rimpatriato è totalmente abbandonato a sé stesso.

Ecco, appunto, la Guardia costiera libica. Cosa pensa dei sospetti sul suo coinvolgimento nel traffico di esseri umani?

Le collusioni di una parte della Guardia costiera con i trafficanti di migranti sono note anche in Italia. Certo bisogna dire che si tratta di una minoranza. Inoltre, mi chiedo se si possa sempre parlare di corruzione.

Cosa intende?

Le faccio un esempio, una volta mi sono trovato a parlare in confidenza con un membro della Guardia costiera che mi ha detto di avere ricevuto un giorno la visita di alcuni uomini mascherati che sono piombati nel suo appartamento intimandogli di non andare a lavoro il giorno dopo. Dopo la visita il militare ha avvertito i suoi superiori di quanto accaduto, ma il giorno successivo non si è presentato al lavoro per paura delle possibili ripercussioni. Di fronte a una storia del genere mi chiedo: possiamo considerare persone come lui davvero “corrotte” dai trafficanti?

Il problema della debolezza delle autorità libiche è sicuramente dovuto anche alla lotta avvenuta sinora tra il presidente libico Fayez al-Sarraj  e il generale Kahlifa Haftar. In questi giorni si susseguono gli incontri per trovare la soluzione a un conflitto che dura ormai da quasi dieci anni. La pace a Tripoli potrebbe avere effetti sulle condizioni dei migranti nei paesi?

Sinceramente non credo che una pace tra Haftar e al-Sarraj avrebbe vere ripercussioni sulla vita dei migranti se non la creazione di una maggiore stabilità economica e quindi di una maggiore offerta di posti di lavoro. Le critiche che facciamo ai due regimi sono pressoché identiche e soprattutto le forze di Haftar si sono rese responsabili in questo periodo di espulsioni di massa verso il Sudan e il Ciad.

Come giudica l’Italia nella gestione dell’arrivo dei migranti durante questa pandemia?

Credo che nei limiti del possibile l’Italia abbia compiuto un’azione molto importante dal punto di vista umanitario e anche coraggiosa da una prospettiva più di tipo politico decidendo di fare rimanere aperti i porti e di non chiudere le sue frontiere come fatto da altri paesi. Sicuramente quella delle navi quarantena non è stata una situazione facile, ma credo vada comunque riconosciuta la volontà di accogliere i migranti pur con la pandemia in atto.

Negli ultimi mesi un’inchiesta giornalistica ha accusato Frontex di avere respinto alcuni barconi di in viaggio nel mar Egeo dalla Turchia verso la Grecia. È a conoscenza di situazioni simili nel Mediterraneo centrale?

In questo tratto di mare il ruolo di Frontex è sicuramente ridotto. Non ho notizie di respingimenti, ma abbiamo dei dubbi su come la sorveglianza aerea venga utilizzata.

Intende dire che potrebbe essere usata nei respingimenti?

Non è chiarissimo se sia usata anche per riportare i migranti in Libia. Una scelta che non credo abbia un senso da un punto di vista umanitario visti i gravi rischi che i migranti corrono una volta tornati sul suolo libico.

Un altro soggetto molto contestato nel Mediterraneo sono le organizzazioni non governative che effettuano salvataggi nelle acque internazionali.

Credo che oggi le ong sopperiscano a una grave mancanza degli stati europei che hanno sospeso le missioni di salvataggio nelle acque internazionali e salvano solo i migranti che entrano nelle loro acque. È chiaro che di fronte a una situazione del genere qualcuno deve intervenire per evitare che le persone muoiano in mare. È come un incendio: se i pompieri rimangono immobili qualcuno dovrà pur spegnere il fuoco.

Ma intanto in Europa i populisti vincono sostenendo che se aiutiamo tutti finiremo sommersi dai migranti.

È un falso mito da sfatare: secondo i dati dell’Unhcr, i nuovi richiedenti asilo che si rivolgono ai nostri uffici hanno vissuto in Libia per una media di quattro anni e due mesi e spesso vorrebbero continuare a farlo. Ciò che in molti in Europa non capiscono è che la maggior parte dei migranti non vuole necessariamente andare in Europa, ma preferirebbe rimanere in Libia se la situazione fosse migliore (senza torture e violenze ndr). Risolvere il problema libico significherebbe anche risolvere gran parte dei problemi legati ai flussi migratori verso l’Europa.

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