Boris Johnson aveva fatto irruzione al governo con spavalderia, a bordo di una ruspa, gridando: «Get Brexit done!», «Sia fatta Brexit!». Uscirà di scena da Downing Street trascinato a forza dai suoi stessi compagni di partito, e stavolta con loro a dirgli: «Get exit done!», «Sia fatto fuori il disastroso primo ministro». Proprio come era successo alla predecessora Theresa May, che Johnson aveva rimpiazzato, non è bastato sopravvivere a un voto di sfiducia per restare in sella. Martedì, uno dopo l’altro, i membri del governo hanno iniziato ad abbandonare il premier; giovedì le dimissioni hanno raggiunto la sessantina. Così pur dando loro dei «serpenti» prima, e delle «pecore» poi, il premier si è visto costretto a rinunciare alla leadership del partito conservatore, in vista poi di un addio al governo. Ma chi pensa che la cacciata del «clown», famoso per lo «scandalo dei party» durante il lockdown inglese, sia di per sé una festa, sbaglia valutazione: il motivo per il quale il partito conservatore ha innescato le dimissioni di Johnson è mantenersi ancor più saldo al potere. E non è escluso che il nuovo leader non possa essere ben più falco di lui.

La dinamica

L’epilogo per Johnson porta i nomi di Rishi Sunak, il potente cancelliere dello Scacchiere, e del suo sodale Sajid Javid, anche lui al governo con delega alla salute. Il 5 luglio i due si dimettono, e innescano addii a catena. L’ultimo degli scandali che il premier – e il suo partito con lui – ha inanellato porta il nome di Chris Pincher. Che il deputato tory, promosso con un incarico governativo a febbraio, avesse l’abitudine di palpeggiare, pare che al premier fosse noto, anche prima che l’ultimo episodio di molestia a due ragazzi in un club esclusivo esplodesse, fino a portare Pincher alle dimissioni a fine giugno. Eppure Johnson ha sottostimato, negato e camuffato il tutto finché la situazione glielo ha consentito, proprio come era già successo con il mega scandalo delle feste in pieno lockdown; e sono i party l’innesco principe del crollo di consenso del premier.

Il consenso e il partito

Una settimana prima che il caso feste esplodesse, i conservatori erano in vantaggio; dopo c’è stato un calo dal quale non si sono ripresi. Per capire gli sviluppi attuali bisogna concentrarsi su un punto: nel Regno Unito, quando il partito che è al governo prevede una sconfitta elettorale, punta anzitutto a sostituire il leader di partito, per poi rimpiazzarlo anche come premier. Non è l’intero parlamento a far cadere Johnson, aprendo così la corsa all’opposizione, ma i conservatori. Il loro gruppo parlamentare, il “1922 Committee”, ha provato a sfiduciare Johnson a inizio giugno, stimolato da sondaggi disastrosi e dalle elezioni suppletive imminenti. Il premier ha resistito al voto, e le elezioni del 23 giugno per i conservatori si sono confermate una débacle: liberali e laburisti hanno espugnato i loro collegi. Anche May aveva superato un voto di sfiducia, e nondimeno poi ha dovuto lasciare l’incarico all’allora prorompente Johnson, che nell’estate del 2019 le ha scippato partito e poi governo. La storia si ripete: ora è Johnson a inciampare su sé stesso. Certo, un altro voto di sfiducia dei compagni, senza cambiare le regole, non sarebbe stato possibile prima di un anno, ma la fuoriuscita dal governo di decine e decine di esponenti si è rivelata una pressione ineludibile.

Aggrapparsi al potere

Quando Michael Gove, che con Johnson era ministro alla Coesione ma di governi ne ha attraversati tanti, ha detto che Johnson doveva andarsene, sulle prime Downing Street gli ha dato del «serpente» e lo ha cacciato dall’esecutivo. Ma giovedì Johnson si è ritrovato solo con pochi inossidabili come Nadine Dorries. Ha avviato il rimpasto, ha dato appuntamento ai fedelissimi e alla moglie davanti a Downing Street, e camuffando il discorso di resa con proclami di «orgoglio» sull’operato del governo, è arrivato all’epilogo: «Ci dev’essere un nuovo leader del partito e quindi dell’esecutivo». Non ha mai pronunciato la parola «dimissioni», né le scuse. In compenso ha accusato i compagni di essere nient’altro che un gregge di pecore: «A Westminster l’istinto gregario è potente, quando il gruppo si muove tutto si sposta». Ha mentito sui sondaggi: «Siamo in svantaggio solo di un pugno di punti», mentre il distacco dai laburisti è di almeno sette, è da gennaio che i conservatori sono stati sorpassati, e la sua popolarità è ai minimi termini. Infine, Johnson si è aggrappato a quel che restava: inchiodarsi al governo come caretaker – per sbrigare gli affari correnti – finché i conservatori non sceglieranno un nuovo leader, nonostante i malumori di chi sperava in un premier di transizione, e vantare i «successi di Brexit», dei vaccini, il «supporto all’Ucraina».

Cosa (e chi) viene dopo

La competizione ora si sposta sulla leadership del partito, che determina quella al governo; il calendario sarà comunicato nei prossimi giorni, ma molti tories sono insofferenti all’idea di lasciare Johnson a Downing Street fino all’autunno. Chi verrà dopo? Su vari versanti, i possibili successori di Johnson potrebbero rivelarsi più falchi di lui. La ministra degli Esteri Elizabeth Truss è nota per le posizioni iperliberiste oltre che per le esternazioni dure contro la Russia. Sul secondo punto anche il segretario alla Difesa Ben Wallace, che YouGov misura come il preferito tra i conservatori, è «falco». Lo è dal punto di vista economico Rishi Sunak, il cui contesto familiare è quello della grande industria e finanza, ma che pure nella lettera di dimissioni non fa che invocare l’austerity. Priti Patel, ministra dell’Interno uscente che ora pare scaldi i motori della campagna per la leadership, è nota per le posizioni dure sull’immigrazione, compreso il «piano Ruanda» per spedire lì i rifugiati. L’uscita di Johnson porterà forse un leader più credibile, ma certo non più progressista di lui.

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