Dopo che Mario Draghi ha concentrato gli sforzi di dialogo con Vladimir Putin sull’obiettivo concreto di sbloccare l’esportazione di cereali dal porto di Odessa, un’altra telefonata al Cremlino, partita questa volta da Emmanuel Macron e Olaf Scholz, si conclude con la parvenza di una promessa. La promessa di Putin, come riferisce l’Eliseo, è quella di «accordare un accesso delle navi al porto per l’esportazione di cereali senza che la cosa venga sfruttata militarmente dalla Russia se il porto stesso viene sminato a tal fine». Mentre Mosca preme sul Donbass e il presidente russo discute al telefono coi leader europei, la destra italiana, tutta presa dalla corsa elettorale, finisce per inciampare su se stessa. Il viaggio a Mosca di Matteo Salvini, che proprio come i suoi sodali Viktor Orbán e Marine Le Pen traveste la storica amicizia con Putin sotto l’argomento della mediazione di pace, è accolto come una boutade pericolosa.

La versione di Salvini

«Non ho certezze che ci andrò, ci è stato prospettato, ci stiamo lavorando ma non è un weekend a Forte dei Marmi, è complicato. Si fa se serve». Così questo sabato il leader leghista ha precisato che sia la realizzazione del viaggio al Cremlino, che la data, «non dipendono da me». Dipendono da Mosca, a quanto pare, anche perché il governo italiano lascia intendere di essere stato tenuto all’oscuro dell’iniziativa. «Non vado a nome del governo, è evidente. Ma vado rappresentando il sentimento della maggioranza degli italiani», sostiene Salvini. Che sostiene di voler così «aiutare» il premier italiano. «Con Putin parla Draghi», mette i paletti Luigi Di Maio. «La guerra non è un tema da tour estivo», dice il ministro degli Esteri, capofila di un piano di pace a sua volta accusato di essere un piano dettato più da esigenze di politica interna che da una effettiva spinta propulsiva diplomatica.

La bomba sovranista

Qual è il piano di Salvini? Certo è che la tattica ricorda molto quella di Orbán, il grimaldello di Putin nell’Ue, che ha condotto un’intera (vincente) campagna elettorale sbandierando l’argomento dell’interesse nazionale alla pace e limitando ogni condanna a Mosca. Il 12 giugno da noi si vota. Il premier ungherese come prima visita ufficiale ha scelto il Vaticano; allo stesso modo Salvini non fa che citare la Santa sede, quando si erge a pacificatore. Orbán ha proposto una conferenza di pace a Budapest, Salvini invoca grandi iniziative di pace. Ma quanto siano attendibili gli zeli sovranisti per la pace, o i sovranisti come pontieri di pace, lo ha fatto intendere il papa stesso in un’intervista qualche tempo fa: Orbán durante l’incontro gli avrebbe detto che la guerra sarebbe finita il 9 maggio. La guerra è ancora qua. Intanto le parole di Salvini contribuiscono a far deflagrare tutte le contraddizioni interne nel governo e nel centrodestra. In una sintonia filo-atlantica, tanto Enrico Letta che Giorgia Meloni, pur con toni diversi, criticano l’iniziativa. Il segretario Pd dice che il leader leghista «va dove lo porta il cuore, la leader di Fratelli d’Italia avverte che si rischia di scomporre «il campo occidentale». «Se creo divisioni resto coi miei figli», conclude Salvini. Intanto Putin avanza. Toglie i limiti di età per arruolarsi, e prende Lyman, nell’est Ucraina, cruciale per la sua collocazione e come snodo ferroviario. Si prepara così a uno stadio successivo dell’offensiva sul Donbass.

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