A fine 2020 numerosi quotidiani riportavano la notizia di una peculiare polemica intellettuale. Il 15 novembre di quell’anno Ben Smith, allora giornalista del New York Times, aveva ricevuto una surreale telefonata dal centralino dell’Eliseo che subito dopo aveva provveduto a passargli al telefono il presidente Emmanuel Macron. Perché il presidente francese aveva deciso di telefonare direttamente a un giornalista statunitense?

A quanto pare l’inquilino dell’Eliseo non aveva buone notizie da riferire. Era invece molto adirato per come i media anglosassoni stavano ricostruendo la reazione francese agli attentati di matrice islamista e le decisioni politiche prese dal governo francese, soprattutto quelle relative alla proposta di una legge contro il separatismo islamista.

Nel raccontare la telefonata Smith ha riportato un virgolettato, attribuito al presidente francese, molto significativo: «Quando vedo, in questo contesto, numerosi giornali di paesi che condividono i nostri valori e che scrivono in un paese figlio naturale dei lumi e della rivoluzione francese, e che legittimano queste violenze, che dicono che il cuore del problema è in realtà la Francia razzista e islamofoba, mi dico: abbiamo perso i fondamentali».

Difficoltà di confronto

I contatti non si limitavano ai soli giornalisti anglosassoni. Anche chi scrive ha ricevuto in quei mesi un cortese invito da solerti funzionari del Quai d’Orsay per confrontarsi sul modello francese e sulla difficoltà della sua comprensione all’estero. Il confronto è stato utile a capire le difficoltà a relativizzare l’universalismo dei principi francesi, la loro impossibilità a funzionare in società culturalmente e politicamente molto diverse. «Come fate a spiegare la laïcité  agli indonesiani?»; «Non vi rendete conto che è impossibile dedurre cartesianamente politiche da principi astratti?».

Il confronto è stato cortese, ma fermo. L’occhio cinico, forse profondamente influenzato dal vivere alla giornata delle politiche italiane sul tema, comprendeva l’orgoglio francese ferito. Allo stesso tempo era impossibile colmare l’evidente divario tra l’astrattezza dei principi repubblicani e le molteplici necessità di una società plurale. La conversazione di quasi due ore è finita con la promessa di risentirsi per continuare il confronto.

Perché nessuno capisce la Francia? Come mai i media stranieri, gli intellettuali e gli studiosi degli altri paesi non riuscivano a comprendere la grandeur del modello francese e del principio di laïcité e non erano disposti a riceverlo come un dono della Francia al mondo?

La legge del 2021

Anne-Sophie Bradelle, consigliera del presidente per i media internazionali, aveva raccontato a Le Monde il 6 novembre di quell’anno i grandi sforzi fatti dallo staff presidenziale per spiegare le ragioni francesi ai media internazionali. Il rapporto 2022 della U.S. Commission on international religious freedom, pubblicato il 25 aprile di quest’anno, dedica un passaggio importante alla legge fortemente voluta da Macron relativa al «rafforzamento dei principi della Repubblica» e approvata il 24 agosto 2021.

Il modello è quello indicato nel famoso discorso a Les Mureaux, la necessità di un «cambio di paradigma», l’urgenza di riportare al centro il controllo dello stato per costruire un «Islam des lumières» parte delle istituzioni pubbliche e non ostaggio di potenze straniere. Allora Macron sosteneva che non fosse possibile per lo stato “organizzare” le religioni, ma la legge del 2021 promette interventi invasivi che, a volte, potrebbero andare ben oltre la mera “organizzazione”.

Nel rapporto della commissione statunitense il commento sulla legge francese appare sotto il paragrafo titolato «Intolleranza religiosa in Europa». Dopo aver ricordato che la legge contribuisce ad aumentare il controllo dello stato sulle moschee e sulle organizzazioni musulmane, il rapporto ricorda che «ora il governo ha il potere di chiudere i luoghi di culto e sciogliere le associazioni religiose senza la necessità di attendere l’ordine di un giudice nel caso in cui i suoi membri “provochino violenze o incitino all’odio”». Si ricorda, inoltre, come ora le organizzazioni religiose dovranno «ottenere un permesso governativo ogni cinque anni e sono soggette a controlli annuali nel caso in cui ricevano fondi dall’estero».

Con un passaggio di sapiente diplomazia, il rapporto sottolinea come: «Secondo i critici della nuova legge, questa attribuisce troppo potere al governo rispetto alle associazioni e alle organizzazioni religiose e prende di mira ingiustamente la religione islamica in un paese in cui i musulmani hanno attraversato decenni di discriminazioni, crimini d’odio e marginalizzazione. A questo clima hanno contribuito anche le aspirazioni presidenziali di Eric Zemmour, un giornalista con una storia di retorica anti-musulmani».

Probabilmente gli estensori del rapporto non hanno avuto l’occasione di vedere il dibattito tra Marine Le Pen e Gérald Darmianin, ministro dell’Interno francese, durante la campagna elettorale per le presidenziali. La sera del 12 febbraio, in diretta tv, Darmianin ha accusato Le Pen di essere «troppo molle» sull’Islam. Il ministro dell’Interno aveva messo la freccia e sorpassato a destra Marine Le Pen.

Critiche internazionali

A rivedere il video dopo quasi due anni risulta ancora una scena incredibile, ma molto rivelatrice. Di recente anche testate giornalistiche vicine ad alcuni paesi del Golfo hanno fortemente criticato le scelte legislative francesi in tema di religione e, soprattutto, di Islam.

Il 2 novembre di quest’anno Middle East Eye titolava: «L’islam francese di Macron ricorda le politiche repressive dei regimi del Golfo». L’accusa è quella di aver creato un sistema in cui i «valori della Repubblica» sono diventati i nuovi confini di uno spazio pubblico che «riconosce solo la sottomissione politica». Nell’articolo si dice che la Francia ha adottato un approccio simile a quello degli Emirati Arabi Uniti in cui viene utilizzato «ogni mezzo a disposizione per soffocare il dissenso politico ed è stata anche creata un’istituzione, il Consiglio della Fatwa, per regolare l’Islam e promuoverne una versione “moderata”».

Lo scorso 22 novembre Ueno Kagefumi, ambasciatore emerito del Giappone presso la Santa Sede, ha pubblicato per la Union of catholic asian news un intervento dal titolo La Cina e la Francia adottano un approccio simile sulla religione. Non sarebbe forse necessario ricordare che il Partito comunista cinese, da anni, rinchiude la minoranza musulmana degli uiguri in campi di rieducazione politica. Ciò costituisce una delle più importanti violazioni dei diritti umani su scala mondiale.

Il diplomatico giapponese riscontra una similitudine tra l’approccio cinese e quello francese rispetto al tema della religione. In entrambi i casi l’obiettivo appare essere quello di «contenere la religione nello spazio privato». Da una parte si punta alla sinicizzazione delle religioni, dall’altra alla francesizzazione: «Per Xi Jinping la religione in Cina deve essere subordinata al marxismo, per Emmanuel Macron l’Islam in Francia deve essere subordinato all’Illuminismo». Kafeguni riconosce che «tuttavia i due paesi hanno comunque diverse culture politiche». Non sappiamo se quest’ultima affermazione sarà utile al fine di evitare un telefonata dell’Eliseo che, davanti al paragone con il modello cinese di regolazione del fenomeno religioso, potrebbe forse reagire in maniera scomposta. 

Le difficoltà francesi sono però figlie di un modello che fa sempre più fatica a confrontarsi con un nuovo protagonismo della religione nella sfera pubblica e che preferisce le idee e i principi astratti alla concretezza della Storia e della cronaca. E se un modello vive solo di Storia ma non nella Storia, si pone come antistoria. Con i risultati e le incomprensioni che vediamo ogni giorno.

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