La foto di una signora – capelli bianchi e foulard azzurro – abbracciata a un albero e protetta da una giovane ragazza, che con il suo corpo si frappone tra l’anziana e il gruppo di gendarmi armati alle loro spalle, è diventata il simbolo dell’ultima protesta ecologista in Turchia.

Le protagoniste dello scatto, rimbalzato per giorni sui social, sono parte di un gruppo di attivisti che per settimane hanno cercato di bloccare l’espansione di una miniera di carbone nella zona di Akbelen, nel sud ovest della Turchia.

Il progetto espansionistico porta la firma di Limak Group e Ic Ictas Holding, due aziende private turche che nel 2014 hanno acquisito la Yk Energy, compagnia statale proprietaria delle centrali termiche e delle relative miniere costruite a partire dagli anni Ottanta regione di Muğla.

Contro le foreste

Negli anni, ben otto villaggio sono stati spazzati via per ampliare le aree estrattive, causando danni ambientali ingenti e costringendo gli abitanti a vendere le proprie abitazioni.

Ai residenti sono state più volte promesse nuove case nella stessa area, ma i costi delle nuove costruzioni e il ribasso costante degli indennizzi da parte delle compagnie estrattive hanno allontanato i vecchi residenti, distruggendo il tessuto sociale e cancellando la memoria del luogo. Un copione ben noto nella Turchia di Recep Tayyip Erdogan, che ha fatto dell’urbanismo uno strumento di controllo e di cambiamento sociale del paese.

La foresta di Akbelen, dunque, è solo l’ultima area della regione di Muğla a finire nel mirino di Limak Group e della Ic Ictas Holding, ma questa volta le compagnie hanno dovuto fare i conti con la resistenza degli abitanti della zona.

Nel 2020, quando il ministero dell’Ambiente ha dato il via libera ai lavori di espansione, gli attivisti sono ricorsi alle vie legali per bloccare i lavori, riuscendo a ottenere la sospensione delle operazioni di disboscamento dei 780 acri dell’area di Akbelen.

Nonostante il divieto, le compagnie a luglio del 2021 hanno iniziato ad abbattere alcuni alberi, ma sono stati nuovamente ostacolati dagli attivisti, organizzatisi per tenere sotto costante osservazione il sito.

Il loro impegno però non è stato ripagato: a novembre 2022 la foresta è stata riconosciuta dagli esperti della Corte amministrativa di Muğla come adatta all’estrazione del carbone e a luglio sono iniziate le operazioni di abbattimento degli alberi. Gli attivisti hanno provato fino all’ultimo a bloccare la distruzione dell’area verde, ma hanno dovuto affrontare la repressione violenta delle forze dell’ordine e in alcuni casi persino il carcere.

La repressione

Mentre gli attivisti venivano allontanati dalla foresta con gas, idranti e spray urticanti, il presidente turco ha condannato le proteste e difeso l’operato delle compagnie minerarie.

Per Erdogan, i manifestanti sono una minaccia per il paese e per la sua stabilità, tanto da essere stati equiparati a golpisti che nel 2016 provarono a rovesciare il governo. Parole molto dure, ma non nuove nel linguaggio del presidente.

Erdogan, che a maggio ha vinto nuovamente le elezioni presidenziali, ha portato avanti negli anni una campagna di criminalizzazione dei movimenti ambientalisti, presentandosi come l’unico vero difensore dell’ambiente.

Nel suo discorso di condanna, il presidente ha infatti elogiato gli sforzi fatti dal governo negli ultimi vent’anni per la riforestazione del paese, promettendo di piantare 30 milioni di nuovi alberi entro il 2023. Il disboscamento di Akbelen quindi sarebbe un sacrificio necessario ma - secondo la logica di Erdogan - la perdita di questo polmone verde sarà presto compensata.  

Per il capo di Stato d’altronde le centrali termiche della provincia di Muğla sono troppo importanti per potersi fermare, oltre ad essere gestite da persone a lui vicine. Un aspetto quest’ultimo importante e che generalmente influisce sulle possibilità di vittoria delle proteste.

Nel 2021 infatti le manifestazioni contro la miniera di oro che doveva sorgere sul monte Ida hanno portato al blocco dei lavori e all’abbandono del progetto da parte della compagnia canadese Alamos gold dopo il mancato rinnovo delle concessioni da parte del governo. In questo caso, però, il fatto che la compagnia fosse straniera è stato dirimente e il timore degli attivisti è che il progetto possa presto riprendere sotto il controllo di qualche holding turca.

Carbon zero

La distruzione della foresta di Akbelen e l’importanza delle centrali a carbone - e delle relative miniere estrattive - dicono molto sul reale interesse del governo turco a ridurre le emissioni di anidride carbonica e ad avvicinarsi agli standard richiesti per aderire all’Ue.

Il paese dovrebbe in teoria ridurre del 40 percento le emissioni entro il 2030 e raggiungere la neutralità carbonica entro il 2053, ma si tratta di obiettivi difficilmente raggiungibili allo stato attuale.

Secondo gli ultimi dati disponibili, nel 2020 la Turchia ha prodotto 523,9 milioni di tonnellate di anidride carbonica equivalente, registrando un aumento del 3,1 percento rispetto all'anno precedente. Ankara inoltre prevede che le emissioni di gas serra arriveranno a 1,175 miliardi di tonnellate entro il 2030. L’ampliamento delle miniere di carbone e la costruzione in tempi recenti di una nuova centrale realizzata con capitale cinese nel golfo di Alessandretta sono in netto contrasto con gli impegni presi della Turchia.

Per arrivare a una reale riduzione di anidride carbonica, il governo dovrebbe cambiare le proprie politiche energetiche e rivedere il modo in cui viene promossa la crescita economica del paese, ma le priorità di Erdogan sono altre.

Il presidente punta a trasformare la Turchia in un hub regionale dell’energia, approfittando anche dell’allontanamento dell’Europa dalla Russia a seguito dell’invasione dell’Ucraina. Per Erdogan dunque l’ambiente non è altro che un elemento da sfruttare per raggiungere i suoi obiettivi geopolitici, ma a pagarne le conseguenze saranno le generazioni future.

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