Il massiccio attacco partito dalla Striscia di Gaza alle sei di questa mattina verso il territorio israeliano è un inedito nella storia recente dell’eterno conflitto israelo-palestinese. Non perché gli allarmi hanno suonato anche sui cieli di Gerusalemme e Tel Aviv, cosa ormai consueta con l’armamentario iraniano in dotazione a Hamas e alle varie sigle della eterogenea galassia della Jihad islamica, capace di penetrare nel profondo il territorio israeliano. Nemmeno è inedito per la potenza di fuoco, si parla di migliaia di missili nelle sole prime ore della mattinata per la maggior parte fermate dal sistema Iron Dome richiesto anche dall’Ucraina in questi mesi.

La novità non è neanche l’infiltrazione in diversi villaggi oltre il confine israeliano da parte di miliziani attraverso i ben noti tunnel sotterranei che si ricreano nel momento in cui li si distrugge.

L’aspetto inedito è che nei conflitti del 2012, 2014, 2019 Israele sembrava tenere in mano il pallino delle operazioni, sempre seguite a provocazioni militari provenienti da Gaza, ma sviluppatesi in tempi e modi da far pensare ad una pianificazione da parte di Gerusalemme. Seppur preceduto dal lancio di un missile dimostrativo verso il Mediterraneo il 2 ottobre e da una serie di minacce da parte della Jihad Islamica Palestinese «[…] per proteggere Gerusalemme e il Monte del Tempio dalle provocazioni di gruppi di fedeli ebrei e politici israeliani», l’attacco di oggi sembra aver colto tutti di sorpresa.

Naturalmente, la reazione israeliana è già stata annunciata; la sua intensità sarà, come sempre, proporzionale al pericolo percepito e all’arsenale oggi in mano ai vari gruppi presenti nella Striscia. Aspetteremo le rivendicazioni, ma qualche motivo del lancio di missili odierno possiamo comunque intuirlo.

Certo non basta l’anniversario della Guerra dello Rom Kippur iniziata il 6 ottobre 1973. Un ruolo lo gioca l’eterna competizione fra le varie sigle che si contendono il potere a Gaza. Hamas, comunque ritenuta da Israele responsabile di quanto accade perché governatore ufficiale della Striscia, subisce da tempo la concorrenza della Jihad islamica, che non manca occasione di mostrarsi forte agli occhi di abitanti stremati da anni di embargo e condizioni di vita spesso miserabili.

Non sfugge, però, che quanto vediamo in queste ore segue a sempre più esplicite manovre di avvicinamento fra Gerusalemme e Riyad, dove a fine settembre è per la prima volta atterrato un ministro israeliano in occasione di un meeting internazionale (il ministro del turismo Haim Katz). La stretta fra Israele e Arabia Saudita stimolata in ogni modo dall’amministrazione Biden è da molti vista come punto di approdo degli Accordi di Abramo siglati nel 2020, con cui si è avviato un processo di normalizzazione delle relazioni diplomatiche fra lo Stato Ebraico e parte del mondo arabo, che si aggiunge ai trattati di pace siglati con Egitto (1979) e Giordania (1994).

Se questi accordi rappresentano un punto di svolta con cui si tenta di dare una qualche forma di stabilità ad un’area da cui gli USA vogliono disimpegnarsi il più presto possibile e che negli ultimi venti anni ha visto il crollo di interi Stati (Siria, Iraq, Libia, se estendiamo il caos al Nord-Africa), le vittime sacrificali sembrano essere due: Iran e Palestina. A dire il vero, più la seconda della prima.

Se l’implemento USA degli Accordi di Abramo sembra essere in assoluta continuità con l’Amministrazione precedente che li ha promossi, Biden, già Vice Presidente di Obama ai tempi dell’altrettanto storico accordo con Teheran del 2015, sta cercando di trovare qualche forma di coinvolgimento nel nuovo Medio Oriente per il governo degli Ayatollah, sembrando anche assecondato da Mohammed Bin-Salman, sempre più dominus della politica saudita una volta vistosi condonare dalla comunità internazionale l’omicidio di Jamal Khashoggi.

Una manovra che lascerebbe i palestinesi, di Gaza e Cisgiordania, definitivamente senza protettori, costringendoli ad accettare obtorto collo qualunque soluzione gli venisse proposta. Al di là della retorica araba, diverrebbe, di fatto, un popolo sotto tutela, troncando ogni illusione di autodeterminazione a cui ha aspirato in questi decenni. Con l’attacco di oggi i palestinesi battono, forse, un colpo. Anche una lezione di diplomazia: la pace non può passare sopra la testa di chi combatte.

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