A quattro mesi dallo scoppio della guerra in Ucraina, la stabilità del fianco est rimane la priorità strategica dell’Alleanza. La crisi in Europa ha tuttavia rivelato ramificazioni più ampie che si ricollegano a un dibattito preesistente, quello inerente al ruolo che la Nato può ricoprire in un contesto internazionale caratterizzato da equilibri in evoluzione.

Questo dibattito era già emerso in concomitanza con il perno asiatico degli affari globali, un trend che aveva gradualmente spinto l’Alleanza atlantica a guardare alle sfide e alle opportunità che scaturiscono dal nuovo centro di gravità delle dinamiche globali, l’Indo-Pacifico. Sebbene il futuro delle relazioni transatlantiche continuerà a essere strettamente legato al pericolo russo, è anche vero che la guerra in Europa non andrà a offuscare l’importanza del teatro asiatico per i membri dell’Organizzazione.

Sguardo a oriente

L’interesse della compagine atlantica per la regione asiatica non è una novità degli ultimi anni. Tra la fine degli anni Duemila e i primi anni Dieci, la Nato si era già mostrata interessata a questo contesto, pur mantenendo il tradizionale outlook eurocentrico.

Sebbene il Concetto strategico del 2010 non includesse alcun riferimento a questa regione e neppure ai nuovi equilibri qui emergenti, gli alleati già partecipavano a operazioni nel cuore dell’Asia centrale e nell’oceano Indiano, e avevano identificato nei principali attori regionali dei potenziali partner con cui collaborare. Sotto la spinta degli Usa, che proprio in questi anni riorientavano il proprio baricentro strategico con il famoso pivot to Asia, emerse l’idea di trasformare la Nato in un’alleanza dall’agenda globale, quindi anche asiatica.

Emblematico al riguardo è il suggerimento dell’ex consigliere per la sicurezza nazionale americana Zbigniew Brzezinski, che in un editoriale per l’influente rivista Foreign affairs proponeva di trasformare la Nato in un’organizzazione al centro di un esteso network di partnership non solo con le tradizionali democrazie asiatiche ma anche con la Cina e, addirittura, con l’Organizzazione per la cooperazione di Shanghai guidata da Pechino e Mosca. Sebbene gli Stati Uniti si aspettassero quindi un maggiore coinvolgimento europeo in Asia coordinato al pivot to Asia, il riorientamento degli obiettivi strategici dell’Alleanza tardò a manifestarsi, e il dilemma sulla Global Nato venne presto posto in secondo piano, complice lo scoppio della crisi in Crimea nel 2014.

Rivale sistemico

Il riemergere dell’Indo-Pacifico nella percezione strategica dell’Alleanza segue l’intensificarsi della rivalità tra Washington e Pechino. Durante l’amministrazione Trump, gli Stati Uniti hanno esercitato pressioni sugli alleati europei affinché prendessero seriamente la competizione con la Cina. Tali pressioni sfociarono in un primo timido riferimento all’interno della Dichiarazione di Londra del 2019 alla Repubblica popolare cinese quale attore che pone simultaneamente «opportunità e sfide».

Da allora, la consapevolezza della rivalità con Pechino è andata in crescendo. Sia nel rapporto Nato 2030 che nel comunicato congiunto del vertice di Bruxelles dello scorso anno, gli alleati hanno infatti descritto la Cina come un «rivale sistemico».

La rivalità con Pechino rappresenta per l’Alleanza atlantica una sfida complessa e multidimensionale. Alla luce dell’attuale conflitto in Ucraina, un interrogativo primario che preoccupa i capi di stato Nato è l’estensione della cooperazione tra Pechino e Mosca. Tale preoccupazione si rifletterà nel nuovo Concetto strategico che verrà annunciato in occasione del vertice di Madrid di fine giugno. L’ambasciatrice Usa presso la Nato Julianne Smith avrebbe infatti già confermato che il nuovo documento affronterà direttamente al suo interno i pericoli posti dalla Cina e le sfide della cooperazione sino-russa.

Malgrado la rinnovata instabilità lungo i suoi confini, la Nato si trova, quindi, a ripensare la propria visione strategica in funzione della competizione non solo in Europa ma anche nel teatro indo-pacifico.

Partnership e collaborazioni

Pechino non è l’unico attore asiatico attraverso il quale l’Alleanza atlantica interpreta le proprie relazioni con la regione. Una delle priorità già identificate nel rapporto Nato 2030 riguarda infatti il potenziamento delle partnership con altri importanti attori dell’Indo-Pacifico: Australia, Corea del sud, Giappone, Nuova Zelanda.

Attualmente, questi quattro partner asiatici collaborano su questioni di mutuo interesse attraverso dialoghi e incontri bilaterali e il meccanismo NAC+4.

Tuttavia, a detta degli esperti, questi legami mancano di una «visione strategica comune» chiara che permetta a tali partenariati di progredire senza discontinuità. Difatti, queste forme di collaborazione sono spesso emerse su iniziativa dei partner stessi, piuttosto che essere dettate dagli interessi strategici della Nato. Pertanto, i rapporti con i partner dell’Indo-Pacifico mancano ancora di una struttura in grado di inquadrare obiettivi strategici comuni e le modalità con cui perseguirli.

Oltre a una visione comune, è inoltre fondamentale che queste partnership si sviluppino in maniera bidirezionale. Ciò significa prendere in considerazione non solo il ruolo che la Nato può o non può ricoprire nel teatro asiatico, ma anche il corrispettivo supporto che i partner nell’Indo-Pacifico possono fornire nell’area transatlantica. Ciò si allineerebbe all’obiettivo americano di creare un network più fluido di partnership e alleanze che vada al di là di coalizioni marcatamente regionali.

Lo scorso anno, infatti, un portavoce del Pentagono ha menzionato la necessità di coinvolgere alleati asiatici ed europei al di fuori delle rispettive aree di interesse tradizionali. Se già da alcuni anni una parte degli alleati europei si è mostrata maggiormente coinvolta nelle dinamiche competitive della regione asiatica, emettendo documenti strategici per l’Indo-Pacifico e partecipando a esercitazioni navali in questo teatro, seppur individualmente e non sotto il comando dell’Organizzazione, l’interesse per la sicurezza e le dinamiche dell’area transatlantica dimostrato da alcuni alleati asiatici è invece una novità più recente.

Esempio chiave è l’approfondimento dei rapporti tra l’Alleanza atlantica e il Giappone, che ha preso lo slancio proprio in seguito all’invasione dell’Ucraina. Dallo scoppio della crisi, sia il premier Kishida che il ministro degli Esteri Hayashi hanno incontrato il Segretario generale Stoltenberg. Per la prima volta, inoltre, il capo di stato maggiore delle forze di autodifesa giapponesi ha preso parte alla riunione dei capi militari Nato tenutasi lo scorso maggio. Lo stesso Kishida è stato invitato al vertice di Madrid, e sarà quindi il primo leader giapponese a prendere parte a un summit Nato.

La collaborazione tra il Giappone e l’Alleanza atlantica va oltre il livello politico e, negli ultimi anni, si è gradualmente estesa anche al di fuori del teatro indo-pacifico. Le forze navali giapponesi hanno, ad esempio, preso parte a varie esercitazioni congiunte con navi Nato nel mar Baltico, nel mar Nero, e recentemente nel Mediterraneo, dove due navi delle forze di autodifesa giapponesi sono reduci da esercitazioni con due unità navali dello Standing Nato Maritime group 2, la fregata italiana Carlo Margottini e la turca Tcg Salihreis.

Nel contesto internazionale in evoluzione, la Nato sta quindi guardando sempre più al di fuori del proprio teatro tradizionale. Ciò non significa necessariamente spostare il baricentro strategico dell’Alleanza in Asia e neppure trasformarla in un’organizzazione dalla membership allargata. Al contrario, una Nato che guarda a oriente è un’alleanza che vuole prendere atto delle complesse sfide che intersecano la regione transatlantica e quella indo-pacifica. Ciò richiede non solo l’identificazione dei rischi e dei rivali presenti nell’Indo-Pacifico, ma anche la capacità di coltivare collaborazioni e partnership estese che riconoscano l’interdipendenza esistente nelle dinamiche securitarie di entrambe le aree.

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