Circola da qualche decennio l’opinione che criticare l’espansione della Nato a est sia una intollerabile violazione di un dogma democratico, una blasfema genuflessione sovranista nei confronti della Russia di Vladimir Putin e più in generale un posizionamento sul fronte dei regimi autoritari che comporta l’automatica esclusione dal consesso delle persone perbene. Quando uno prova timidamente a dire qualcosa di diverso, di solito qualcun altro obietta “vallo a dire ai polacchi, ai lituani ecc.” e in un attimo si passa ai decreti Sicurezza di Salvini, al citofono, ai 49 milioni.

La difficoltà di articolare tranquillamente una prospettiva critica senza diventare dei fiancheggiatori putiniani è uno dei molti effetti deleteri dell’interiorizzazione di un’idea adolescenziale della storia come dialettica che si svolge fra due lati soltanto, quello giusto e quello sbagliato.

Ma anche senza volerci ricamare sopra un trattato di filosofia della storia, dovrebbe invece essere legittimo sostenere senza stracciamenti di vesti che l’ammissione dell’Ucraina alla Nato, che il suo presidente, Volodymyr Zelensky, chiede con procedura accelerata e che è stato al centro del vertice ministeriale di ieri, è una pessima idea.

Ed è pessima non perché Putin abbia qualche diritto di ammassare truppe sul confine di uno stato sovrano e indipendente di cui ha già brutalmente violato l’integrità territoriale con le armi, ma perché dalla fine della Guerra fredda l’espansione della Nato ha involontariamente generato, dietro una cortina di buone intenzioni, più ostilità e antagonismi di quelli che si proponeva di sedare.

Era tutto previsto

La crescente aggressività di una Russia schiacciata dall’Alleanza atlantica in rapida espansione non era soltanto prevedibile, era prevista. George Kennan, il grande teorico della dottrina del contenimento, scriveva già nel 1997, dopo l’allargamento proposto da Bill Clinton, che «espandere la Nato è il più grave errore della politica estera americana dell’era post-Guerra fredda», una decisione che «infiammerà le tendenze nazionalistiche, antioccidentali e militariste dell’opinione pubblica russa» e spingerà la politica estera del paese «in direzioni che non saranno certo di nostro gradimento».

Quando il Senato americano ha approvato il primo round di espansione dell’alleanza, Kennan ha detto che era l’inizio di una «nuova Guerra fredda» e ha dichiarato che i «Padri fondatori si stanno rivoltando nella tomba». Per Clinton e i teorici di quella stagione felicemente proiettata verso un’ineluttabile globalizzazione a trazione americana, l’espansione era invece un destino: «È una questione di quando, non di se», diceva il presidente.

Due anni prima delle esternazioni di Kennan, una lunga lista di ex diplomatici e funzionari pubblici, fra cui il leggendario Paul Nitze e l’ex ambasciatore presso l’Unione sovietica Jack Matlock, avevano scritto una lettera aperta che contestava la visione espansionista esposta da altri autorevoli teorici della politica estera americana.

Gli oppositori dell’espansione erano certi che manovre troppo drastiche «avrebbero convinto la maggior parte dei russi che gli Stati Uniti e l’occidente stanno tentando isolarli, circondarli e soggiogarli». Charles Kupchan, politologo di scuola democratica che ha lavorato anche al consiglio per la sicurezza nazionale negli anni di Obama, scriveva nel 1994 che una «Nato estesa porterà la Russia a riaffermare il controllo sulle sue ex repubbliche e a rimilitarizzarsi».

Questi osservatori non avevano particolari doti profetiche, semplicemente conoscevano la materia geopolitica di cui trattavano e qualcuno di loro si era anche avventurato nel tentativo di afferrare qualcosa dell’anima russa, esplorazione antropologica che gli occidentali tentano da secoli, tornando quasi sempre a mani vuote.

Soprattutto, avevano chiara la distinzione, oggi quasi svanita, fra intenzione e azione, consapevoli che le buone intenzioni sono tranquillamente capaci di produrre azioni dannose, controproducenti e perfino disastrose.

L’allargamento dello spazio della democrazia liberale è certamente una buona intenzione, ma muoversi in modo da aizzare l’antagonismo di un avversario che si vorrebbe avvicinare, non allontanare, dalla koinè democratica può produrre l’effetto opposto, oltre a essere in tensione – almeno nello spirito – con il primo articolo del Trattato della Nato, che prescrive di «evitare, nelle relazioni internazionali, la minaccia dell’uso della forza secondo modalità che siano in contrasto con gli scopi delle Nazioni unite».

Per conservare la prospettiva storica è bene ricordare che l’espansione della Nato negli anni Novanta era intesa per proteggere l’Europa orientale dallo scheletro di una superpotenza dismessa e agonizzate, oggi è promossa per tenere a bada una potenza regionale che ha un Pil inferiore a quello dell’Italia, la metà di quello della Germania. Certo, si tratta di una potenza nucleare e con tendenze espansionistiche gravi, ma così sono pure il Pakistan e la Corea del nord, cosa che non rende automaticamente plausibile o saggia l’annessione di India e Corea del sud nell’alleanza, paesi che pure hanno ottime relazioni con la Nato.

Fasi alterne

I rapporti fra la Nato e la Russia hanno vissuto fasi alterne negli ultimi anni. Sembra passata una vita, ma era appena nel 2012, nove anni fa, che Barack Obama scherniva l’avversario elettorale Mitt Romney per aver detto che la Russia era il più grande avversario geopolitico degli Stati Uniti. Il clima da Reset propiziato dalle buone relazioni con Dmitrij Medvedev sembrava il preludio di una grande normalizzazione, mentre invece era soltanto una parentesi. Poi è arrivata la grande ripresa del potere putiniano, la guerra nel Donbass, l’annessione della Crimea e l’infinita saga delle interferenze russe sulle elezioni americane, culminate con l’elezione di Donald Trump, il nazionalpopulista dell’America First che riteneva la Nato «obsoleta» ed era considerato, con alcune buone ragioni e non poche semplificazioni, una specie di agente del Cremlino infiltrato alla Casa Bianca.

A ben vedere, una parte non trascurabile dell’eredità della stagione trumpiana sarà quella di avere promosso e incoraggiato, nella percezione dei suoi avversari, una visione manichea della storia e delle relazioni geopolitiche, con una cesura netta fra i buoni e i cattivi. Si è rafforzata, perciò, l’idea che criticare l’espansione della Nato sia illegittimo e impresentabile.

Dittatori nella Nato

Nell’ennesimo surriscaldamento della questione, che ieri è stata al vaglio dei ministri degli Esteri e della Difesa della Nato, con il segretario di Stato, Antony Blinken, e il capo del Pentagono, Austin Lloyd, in presenza a Bruxelles, non deve sfuggire poi un’ironia. L’attore più attivo sul campo nella difesa dell’integrità territoriale dell’Ucraina, quello che mentre Luigi Di Maio ricava ottime impressioni dalla sua missione a Washington vende i droni a Kiev e congela i viaggi verso la Russia, è Recep Tayyip Erdogan.

Notevole: l’apripista della Nato in Ucraina è un satrapo neo-ottomano che Mario Draghi ha definito un «dittatore». Ma bisogna pur cooperare con costoro, ha aggiunto il presidente del Consiglio, e in effetti l’attivismo erdoganiano in funzione ucraina è una di quelle contraddizioni di cui la geopolitica è da sempre disseminata.

L’abbraccio acritico dell’espansione della Nato come vettore unico della civiltà democratica non tollera queste increspature, cosa che invece contemplavano Kennan e gli altri, quando criticando l’allargamento non mettevano in dubbio il significato dell’alleanza ma intendevano preservarla dagli effetti collaterali di quella che la diplomazia chiama overextension.

Purtroppo di fronte alle intemperanze di Putin, alla tragedia del Donbass e ad altri conflitti meno esplosivi, ma non per questo meno pericolosi, si è largamente perduta la tranquillità necessaria per criticare la strategia espansionista senza essere tacciati di filoputinismo.

La Nato è uno dei perni globali della democrazia liberale, il suo ruolo di stabilizzazione è fondamentale, il suo senso non si è esaurito con il collasso dell’Unione sovietica e fa bene Di Maio a ribadire in tutte le sedi istituzionali che l’impegno dell’Italia verso l’alleanza è «risoluto». Ma questo non è necessariamente in contraddizione con chi sostiene, legittimamente, che la Nato dà il meglio di sé quando non fa assolutamente nulla.

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