«Una siccità del genere non si era mai vista. Il fiume è a un livello così basso che per entrare al villaggio siamo costretti a scendere dalla barca e trascinarla a mano per alcuni tratti». Emanuela Evangelista, biologa italiana e membro della Species Survival Commission della Iucn (Unione mondiale per la conservazione della natura), descrive così la situazione del luogo in cui vive stabilmente da dieci anni e che frequenta da ormai 24.

Si chiama Xixuaú – per raggiungerlo ci abbiamo messo un giorno e mezzo di navigazione da Manaus – ma i suoi abitanti lo pronunciano con l’articolo determinativo davanti. È un villaggio di 60 abitanti rintanati in uno degli angoli più intatti della foresta amazzonica, lato brasiliano, non troppo lontano in linea d’aria dal confine con il Venezuela.

Gli abitanti vivono di pesca e caccia, si spostano in canoa, coltivano manioca. Li chiamano caboclos, popolazione di sangue misto indigeno, europeo e africano, e questo è uno dei tanti villaggi dell’Amazzonia brasiliana, che da sola conta 30 milioni di abitanti.

«La siccità di quest’anno, che prosegue da settembre, è stata davvero eccezionale», racconta Evangelista. «Il caldo estremo, la scarsità di piogge e i fumi di numerosi incendi hanno messo in ginocchio le popolazioni locali, innescando una crisi umanitaria, sanitaria e ambientale».

Ogni 13 anni

La comunità dello Xixuaú è stata fondata nel 1929, ma anche i più anziani del villaggio dicono che il livello dei fiumi qui non era mai stato così basso.

I dati a livello regionale confermano quanto rilevato dagli abitanti della foresta. Quella di quest’anno è stata la stagione più calda mai sperimentata nel bacino amazzonico, e non è la prima volta che negli ultimi anni si registrano record del genere. Lo dicono le statistiche del World Weather Attribution, una collaborazione accademica di climatologi tra cui docenti dell’Imperial College di Londra, Princeton, Laboratoire des sciences du climat et de l’environnement, e altri atenei.

Durante l’attuale stagione secca, il cui culmine solitamente è a dicembre, in Amazzonia la temperatura media è stata di circa 2 gradi e mezzo superiore alla media registrata negli ultimi 43 anni. Gli effetti più clamorosi si sono visti sul Rio Negro, uno dei più grandi affluenti del Rio delle Amazzoni, solitamente largo in certi punti del suo tragitto fino a 1 chilometro.

Come dimostrano le foto circolate, a ottobre il corso d’acqua si era invece ridotto a un rigagnolo nero, battendo un record vecchio di oltre 100 anni. Il problema è che fenomeni del genere, già verificatisi nella storia, negli ultimi anni si stanno ripetendo con maggior frequenza.

La causa principale è il cambiamento climatico provocato dall’uomo, ha scritto il gruppo di scienziati del World Weather Attribution. «Se continuiamo a bruciare petrolio, gas e carbone, molto presto raggiungeremo i 2 gradi di riscaldamento e vedremo episodi simili di siccità in Amazzonia ogni 13 anni», ha dichiarato alla Bbc Frederike Otto, professore associato di scienze climatiche all’Imperial College, tra i curatori dello studio sulla siccità che ha colpito l’Amazzonia.

I periodi di siccità estremi sono ciclici, nel polmone del mondo e non solo. Uno dei fattori scatenanti è El Niño, fenomeno climatico naturale che porta a un aumento della temperatura superficiale delle acque dell’oceano Pacifico, modificando il ritmo e l’intensità delle piogge soprattutto in Sud America.

Cercando di valutare la misura dell’impatto di El Niño sulla siccità che ha colpito l’Amazzonia, i ricercatori del World Weather Attribution hanno però capito che non è stato questo il fattore determinante: «El Niño», si legge nello studio, «ha ridotto la quantità di precipitazioni nella regione all’incirca quanto il cambiamento climatico; tuttavia, la forte tendenza alla siccità è stata quasi interamente dovuta all’aumento delle temperature globali, quindi la gravità della siccità attualmente in corso è in gran parte determinata dal cambiamento climatico».

La posta in gioco

Secondo i ricercatori, a subire maggiormente gli effetti della siccità in Amazzonia sono soprattutto «i piccoli agricoltori, le comunità indigene e quelle rivierasche». Gli abitanti dello Xixuaú per ora hanno sperimentato solo in parte le conseguenze peggiori della siccità. Nonostante la vicinanza al Rio Negro, la manioca quest’anno è cresciuta, e lo Jauaperì – un affluente del Rio Negro, sulle cui acque si affaccia appunto il villaggio abitato dai caboclos – è pescoso come sempre.

Qualche segnale negativo si comincia però a vedere anche qui.

A fine febbraio, quando in teoria l’acqua dovrebbe già essere in fase di innalzamento, abbiamo attraversato zone del fiume quasi completamente secche, con decine di pesci morti e razze agonizzanti. Data la ricchezza ittica della zona, per gli abitanti del villaggio al momento l’effetto più fastidioso è però la dilatazione dei tempi di viaggio o, come avvenuto nei mesi scorsi, l’isolamento dal resto del mondo.

I fiumi sono le strade dell’Amazzonia, e viaggiare con l’acqua bassa è come percorrere una via non asfaltata: bisogna andare piano per non rompere la barca, alleggerire il carico, a volte non ci si può proprio muovere.

«Diventa difficilissimo raggiungere le città in caso di necessità sanitarie. Il trasporto, sia delle persone che dei prodotti da portare sui mercati diventa impossibile, quindi anche l’economia ne risente», ci dice Emanuela Evangelista, che allo Xixuaù vive e lavora come presidente di Amazonia, un’associazione no profit che si batte per la conservazione e lo sviluppo sostenibile della foresta.

400 miliardi di alberi

L’Amazzonia è la più grande foresta tropicale del pianeta. Ospita oltre il 10 per cento della biodiversità terrestre e circa 400 miliardi di alberi.

Un serbatoio enorme di anidride carbonica, che contribuisce a circa la metà delle precipitazioni nella regione ed è un essenziale stabilizzatore del clima mondiale: senza di lei, la temperatura della Terra potrebbe crescere a un livello tale da diventare insopportabile per l’essere umano. Uno studio apparso il 14 febbraio su Nature e intitolato “Critical Transitions in the Amazon Forest System” ha lanciato un allarme preciso sul cosiddetto “punto di non ritorno”.

Analizzando i fattori che potrebbero portare a un collasso, i ricercatori hanno stimato che «entro il 2050, dal 10 per cento al 47 per cento delle foreste amazzoniche sarà esposto a disturbi aggravati che potrebbero innescare transizioni ecosistemiche inaspettate». Carlos Nobre, uno dei climatologi autori dello studio, premio Nobel per la Pace nel 2007 per la realizzazione del quarto rapporto dell’International Panel on Climate Change (Ipcc), ha spiegato al New York Times: «Questo studio dimostra che il punto di non ritorno è più vicino rispetto a quanto prevedevano altre ricerche».

Bernardo Flores, autore principale del nuovo studio e ricercatore presso l’Università federale di Santa Catarina, parlando con il sito specializzato Carbon Brief ha aggiunto: «Dobbiamo rispondere adesso, perché una volta superato il punto critico perderemo il controllo su come si comporterà il sistema».
 

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