Dal 2019 al confine tra Mali, Niger e Burkina Faso è in corso un conflitto che vede contrapposti due gruppi terroristici a matrice salafita-jihadista. Da un lato Jama’at Nasr al-Islam wal Muslimin (Jnim), la cui traduzione in italiano potrebbe essere resa come “gruppo per il sostegno dell’Islam e dei musulmani”, dall’altro l’Islamic state in the greater Sahara (Isgs). Questo scontro intrareligioso non solo permette di approfondire il nesso tra conflitto e religione in Africa subsahariana, ma nasconde anche interessanti spunti di riflessione geopolitica, visto il recente ritiro dell’operazione d’antiterrorismo francese e il contemporaneo arrivo del gruppo Wagner a Bamako.

Il nesso tra conflitto e religione

Dopo la fine della Guerra fredda, la religione, soprattutto quella islamica, è stata più volte criticata per favorire lo sviluppo di atteggiamenti violenti e fornire una base ideologica per guerre e terrorismo. Questa posizione è stata spesso ispirata dalle popolari intuizioni di Samuel Huntington esposte nel suo celebre libro del 1996 Lo scontro delle civiltà.

Numerosi, però, sono stati i tentativi di spiegare il nesso conflitto-religione. Alcuni sostengono perché la religione spinge i fedeli a leggere la realtà attraverso assoluti: il bene e il male. Allo stesso tempo la religione crea senso di comunità e avvicina chi ha visioni del mondo simili, creando divisioni tra gruppi sociali, culturali e linguistici. Vi è anche l’ipotesi che gli insegnamenti di alcune religioni favoriscano la mobilitazione e la militanza violenta. Queste motivazioni sono state spesso usate per spiegare le origini di numerosi conflitti in Africa, dove si registra una forte componente religiosa che contraddistingue i gruppi coinvolti nei conflitti.

Dalla fine della Guerra fredda, i casi del Sudan, Somalia, Mozambico, Nigeria e molti altri vedono opporsi gruppi caratterizzati dall’appartenenza a fedi differenti. Le ragioni profonde che permettono l’utilizzo della religione come fattore di mobilitazione non sono, però, quasi mai legate a princìpi e a credenze di uno o un altro credo. La giustificazione religiosa di conflitti e di atti terroristici è infatti una scelta che ha finalità in primo luogo politiche. La facilità di mobilitazione trova in Africa un terreno particolarmente fertile visto il diffuso malessere, soprattutto nelle aree rurali dei giovani e giovanissimi. Infatti, in Africa è frequente che si faccia leva sulle differenze religiose per sottolineare la marginalizzazione economica, sociale e politica di alcuni gruppi, così da innescare attraverso motivi religiosi dispute basate sull’insofferenza della popolazione.

È vero anche che può essere data un’interpretazione diametralmente opposta del ruolo della religione nei conflitti. Questa interpretazione si lega al ruolo che istituzioni religiose possono giocare e hanno giocato nei processi di pace. Per istituzioni religiose si intendono sia gli attori e organizzazioni affiliati a una o un’altra religione che favoriscono il dialogo, sia quei princìpi comuni a molte religioni che sostengono la risoluzione pacifica dei conflitti.

Il caso del Sahel

In generale, l’ipotesi che la religione fornisca un pretesto per mobilizzare le fasce più povere e meno educate della popolazione viene confermata in Africa subsahariana e nel Sahel. I numerosi gruppi terroristici a matrice islamica hanno sfruttato la crisi multidimensionale in cui si trova la regione sahelo-sahariana per professare declinazioni radicali dell’Islam. Non è infatti l’Islam in sé a fomentare conflitti e movimenti terroristici nel Sahel, ma il suo utilizzo strumentale a fini politici in un contesto di estrema fragilità.

La crisi umanitaria, economica, ambientale e politica contraddistingue la decennale instabilità saheliana. I gruppi terroristici hanno approfittato della fragilità dei paesi saheliani e dall’afflusso delle armi provenienti dal conflitto in Libia. Il colpo di stato in Mali nel 2012 ha ulteriormente compromesso la situazione. Ampie aree del paese divenute prive di qualsiasi controllo statale hanno permesso il proliferare di gruppi terroristici a matrice jihadista. Questi gruppi hanno sfruttato la religione e il diffuso malessere della popolazione locale per radicalizzare numerosi giovani con l’obiettivo di stabilire degli stati islamici basati sui principi della Shi’a. Nel Sahel, però, la moltitudine di gruppi terroristici, che si sono diffusi nell’ultimo decennio, hanno adottato pratiche e ideologie talvolta molto diverse, portando alcuni di questi gruppi jihadisti a competere l’uno con l’altro.

Due estremismi in guerra

Il conflitto in corso dal 2019 nel Liptako, regione che si estende nelle are di confine tra Mali, Burkina Faso e Niger, vede contrapporsi due gruppi islamisti che, nel nome della stessa religione, declinata in maniera leggermente diversa, si scontrano all’insegna di motivi geopolitici, oltre che religiosi. Sia Jnim che Isgs sono riusciti a sfruttare le difficoltà locali per affermarsi nel corso degli anni all’interno di un’area di confine poroso come quello tra Mali, Niger e Burkina Faso. Così, Jnim e Isgs si sono inseriti in un contesto fragile e lontano dal controllo politico di Mali, Niger e Burkina Faso. Questa libertà ha permesso a Jnim e a Isgs di alimentare le proprie finanze sia attraverso la gestione dei traffici illeciti, sia appropriandosi di alcune funzioni statali.

Tuttavia, i due gruppi terroristici, sebbene ambiscano a stabilire uno stato islamico nell’area e condividano anche molti nemici, tra cui la Francia e gli stati saheliani, perseguono i loro obiettivi con metodi differenti. La cooperazione tra i due gruppi terroristici li aveva visti uniti tra il 2017 e il 2019 quando, condividendo l’obiettivo di minare gli sforzi dei paesi saheliani e della Francia nel contrastare il terrorismo jihadista nella regione, avevano organizzato attacchi coordinati. Quindi, nel 2019, il motivo per cui entrambi i gruppi hanno interrotto la cooperazione, non aveva spiegazioni religiose, poiché anche in precedenza professavano diverse forme di salafismo.

La ragione era infatti dovuta alla competizione per il controllo dello stesso territorio, che era aumentata a causa dell’aumento della popolarità di Jnim tra la popolazione civile. Jnim aveva iniziato a fare leva sull’eccessiva violenza di Isgs nei confronti della popolazione civile per aumentare il proprio consenso nell’area. Non è stata, quindi, l’affiliazione ad Al-Qaeda di Jnim e allo Stato islamico di Isgs ad aver fatto precipitare il loro rapporto da amicizia di convenienza, bensì divergenze operative e la competizione per obiettivi comuni.

A quasi tre anni dall’inizio del conflitto tra Jnim e Isgs, si contano migliaia di vittime militari, innumerevoli sfollati e migranti interni, che complicano la già compromessa situazione regionale. Inoltre, il colpo di stato in Mali del maggio 2021 ha portato al potere una giunta militare che in pochi mesi è entrata in collisione con le forze francesi, che a inizio 2022 sono state costrette a ritirarsi dopo quasi dieci anni di operazioni nel paese saheliano e dopo che tra il 2020 e il 2021 avevano riportato vittorie sul campo proprio contro Isgs e Jnim.

La fine di questo conflitto sembra ancora lontana, poiché non tanto le ragioni religiose, quanto quelle geopolitiche sembrano continuare ad alimentare le ostilità. Infine, anche se Mali, Niger e Burkina Faso dovessero riuscire a riprendere il controllo del Liptako e a sconfiggere le resistenze di Jnim e Isgs, dovrebbero aprire un dibattito pubblico sul ruolo dell’Islam nello stato e nella società, con l’obiettivo di marginalizzare l’estremismo religioso così a lungo professato.

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