La protagonista del romanzo Fake Accounts di Lauren Oyler scopre con raccapriccio che il suo ragazzo gestisce account anonimi sui social media che diffondono le teorie del complotto più bizzarre e inquietanti, attività apprezzata da enormi schiere di follower assetate di cospirazioni. 

Il fatto è che il giovane non crede affatto ai complotti che amplifica in rete, per lui è soltanto un modo per arrivare alla fine del mese, ma questo i suoi seguaci non lo sanno.

Lo strano caso romanzesco pone il problema se sia più riprovevole (e pericoloso) il complottista che crede sinceramente nei complotti o quello che finge di crederci soltanto per ottenere qualcosa. 

La questione si applica anche a Donald Trump, che soffiando sui complotti ha mobilitato eserciti di persone che, opportunamente incitate, abbandonano la tastiera e prendono d’assalto Capitol Hill. 

Studiando le carte depositate in tribunale, il New York Times ha scoperto che già qualche settimana dopo l’elezione di Joe Biden, Trump e il suo team sapevano benissimo che le ipotesi che circolavano sui brogli e le elezioni rubate non avevano il minimo fondamento. E del resto le avevano messe in giro loro stessi già prima che le elezioni si tenessero.

L’ex presidente imbizzarrito ha montato nei mesi successivi la campagna “Stop the Steal” sapendo che non c’era nemmeno un cavillo al quale poteva aggrapparsi, ma è stato sufficiente per convincere i più fuori di testa fra i suoi ad andare al Congresso per fermare con la forza la votazione che certificava formalmente il risultato delle urne.

La violenza era tragicamente vera, ma Trump a quel punto era un gestore di account fake, un mentitore che sapeva di mentire. Questa è la dimensione psicopolitica interessante del problema. 

Nel tempo Trump ha trasformato il suo seguito politico in un delirante culto della personalità fatto (anche) di orde di fedeli invasati che hanno sostituito le categorie della razionalità con le oscure fantasie di QAnon, votandosi con inflessibile devozione al complottista in chief, il quale primeggia non soltanto predicando, ma anche dando il buon – cioè il cattivo –  esempio.

Il problema è che questa trama pseudoreligiosa e gnostica per reggere ha bisogno che i fedeli non solo credano nell’officiante, ma anche che credano che lui crede in quello che dice. La fede dei follower degli account fasulli del romanzo vacillerebbe se questi sapessero che dietro c’è soltanto un ragazzino furbo che monetizza le loro paranoie.

La rivelazione del New York Times non cambia i fatti, ma apre una piccola crepa nella percezione, è uno strappo nel cielo di carta, mette alla prova la sospensione dell’incredulità di chi si è votato a Trump, il quale peraltro sta chiaramente mostrando l’intenzione di non disperdere il suo patrimonio di consensi e s’agita sulla scena, immaginando un ritorno trionfale.

Forse le menti dei più oltranzisti fra i suoi adepti sono ormai impermeabili a qualunque nuova informazione sul capopopolo, ma sapere che il gran sacerdote non ha mai davvero creduto nei dogmi che proclama può essere il principio della liberazione.

© Riproduzione riservata