Era a capo del Likud ma ancora all’opposizione nel 2007 Benjamin Netanyahu quando per la prima volta suonò il de profundis alla soluzione dei due stati bollandola come «superata».

Una volta andato al potere nel 2009 non ha fatto altro che ribadire questa sua convinzione, modulando solo i toni, da durissimi ad anodinamente problematici, a seconda della convenienza del momento e, soprattutto, delle pressioni dell'alleato più importante: gli Stati Uniti d’America.

Epici furono i suoi scontri con Barack Obama al proposito, i due si detestavano. Nella campagna elettorale vittoriosa del 2015 non usò mezzi termini e la respinse con veemenza, salvo ipotizzarla una volta ottenuta la maggioranza ma solo per non compromettere ulteriormente i rapporti con Washington.

Nel 2019 fu drastico e conclusivo: «Fine di due popoli e due «tati e annetteremo la valle del Giordano». Tanto da entrare in rotta di collisione persino con Donald Trump, l'inquilino della Casa Bianca a lui più vicino.

Una posizione diventata ancora più radicale da quando, per mantenersi al potere nel 2022 ha dovuto imbarcare nell'esecutivo personaggi apertamente razzisti come Itamar Ben Gvir, uno che vive nel Territori della Cisgiordania, nell'insediamento di Kiriat Arba, sopra Hebron, e Bezalel Smotrich, altro appartenente all'ala più dura della destra messianica.

Oltre alle reiterate dichiarazioni pubbliche, ci sono le decisioni prese da premier perfettamente coerenti. L'impulso imponente dato alla costruzione di nuove colonie che rendono impossibile la nascita di uno Stato palestinese se non al prezzo di un esodo di centinaia di migliaia di ebrei dalle aree sotto occupazione.

L'indisponibilità ad individuare un qualsiasi interlocutore nella controparte con cui avviare dei colloqui. La filosofia mai codificata ma pervicacemente perseguita di conservare lo status quo e tenere i palestinesi in un limbo senza patria.

Dunque non deve stupire, ora, il netto rifiuto opposto a Joe Biden e a gran parte della comunità internazionale che spinge perché si torni all'unico progetto possibile per cercare la pacificazione dell'area dopo 56 anni di occupazione.

Tanto più perché dopo la carneficina di Hamas del 7 ottobre e le evidenti colpe di Netanyahu nel non averla evitata (clamoroso lo scoop del New York Times con le prove che Israele sapeva da un anno della preparazione dell'attacco), Bibi si sta giocando un impronosticabile futuro politico mostrando la sua faccia più truce.

Anche a costo di alienare il consenso e la simpatia verso Israele, come ha sottolineato il presidente americano, causa i bombardamenti indiscriminati che colpiscono la popolazione civile e non solo Hamas con una crescita esponenziale dei cosiddetti danni collaterali (!).

La soluzione dei due stati non è più nell'agenda dei governi israeliani dal 2008, dal rifiuto di Abu Mazen di accettare la proposta di Ehud Olmert. Arrivava a ridosso della malattia di Ariel Sharon, il guerriero che aveva capito, nell'ultima parte della sua esistenza, che il suo popolo non avrebbe mai avuto pace e sicurezza senza «dolorose concessioni», cioè uno stato, ai palestinesi.

Per questo aveva ultimato il ritiro unilaterale di settemila coloni da Gaza e aveva annunciato un'analoga misura in Cisgiordania che avrebbe interessato circa sessantamila abitanti degli avamposti più lontani dalla linea verde. L'ictus gli impedì di perfezionare quel disegno.

Da allora si è lasciata incancrenire una questione mai risolta. Ma non affrontare le situazioni incancrenite non porta alla guarigione, porta al peggioramento della malattia.

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