Dico sempre che una serie come Dix pour cent, da noi Chiami il mio agente! (è disponibile su Netflix, è un piccolo cult), può esistere soltanto in Francia. Perché i francesi, unici e soli tra gli europei, hanno una cosa che solo gli americani hanno saputo confezionare (e che ora forse manco lì esiste più): lo star system.

Dix pour cent, qualcuno di voi della bolla lo saprà, racconta di un gruppo di agenti di attori e registi e cinematografari assortiti alle prese con i contratti (il 10 per cento è la percentuale che trattiene l’agenzia quando uno dei loro assistiti firma per un film), e soprattutto le bizze, le manie, le piccinerie dei loro clienti.

In Francia esiste uno star system che è insieme locale e globale, e dunque in questa serie vedi sfilare nel ruolo di sé stessi, in ordine sparso: Juliette Binoche (un Oscar come miglior attrice non protagonista per Il paziente inglese), Isabelle Adjani (due candidature in passato), Isabelle Huppert (una), Jean Dujardin (una statuetta da protagonista per The Artist), e ancora gli universalmente celebri Charlotte Gainsbourg, Jean Reno, Monica Bellucci ormai più loro che nostra, persino Sigourney Weaver in trasferta tra bistrot e incursioni notturne al Père-Lachaise.

La versione italiana

Ci sono anche tanti volti noti perlopiù in patria, che al massimo conosciamo soltanto noi che non ci perdiamo nemmeno un’uscita d’essai, come si chiamavano una volta. (Parentesi: un amico parigino si stupisce sempre della quantità di film francesi che esce in Italia, pressoché tutta la loro produzione annua. «In Francia usciranno uno o due film italiani a stagione, se va bene», aggiunge. Il che spiega già la maggior parte delle cose che tenterò di spiegare più avanti. Chiusa parentesi).

Dicevo: solo in Francia esiste un vero star system, solo da loro si può produrre un gioiello come Dix pour cent, eppure il format lo hanno comprato in tutto il mondo, dal Regno Unito (e voi direte «Beh, lì è facile»: invece è appena uscito il trailer di Ten percent, la serie-fotocopia prodotta da Prime Video, e il risultato pare scarsissimo) all’Indonesia (remake che vorrei vedere tantissimo).

Arriverà anche l’adattamento italiano, pardon romano, prodotto da Palomar, scritto da Lisa Nur Sultan (quella del legal Rai di attualissimo successo Studio Battaglia, pure quello rifacimento di un format però inglese, The Split) e diretto da Luca Ribuoli (in corso, sempre su Rai 1, un altro reboot, come si dice ora: Noi, ispirato all’americana This Is Us, che però è un pasticciaccio).

Già si dice che potrebbero essere coinvolti, nel ruolo delle stelle nostrane capricciose, Pierfrancesco Favino, Paola Cortellesi, forse l’oscarizzato Paolo Sorrentino, qualcun altro dice Matilda De Angelis, che stava al fianco di Nicole Kidman e Hugh Grant in The Undoing.

Nomi giusti ma molto nostri, qualcuno noto all’estero ma solo alla cosiddetta industry, non certo interpreti così ampiamente popolari come i francesi. Ma il Chiami il mio agente! italiano è pensato, come tutte le future edizioni locali, per il nostro mercato, e va bene così. Solo che quello italiano è un mercato che soffre, basti vedere gli incassi dei nostri film nelle sale. E certo: è colpa della pandemia, delle mascherine, delle cavallette. Ma anche – sintetizzo assai – del fatto che manca, appunto, un’industria, un sistema. E anche uno star system.

Tra due mondi

Torno al principio, alla Francia e al suo sistema che invece c’è, è vivo, pure in tempi di virus e di streaming. Certo, l’iper-protezione della propria industria, della propria filiera di produzione e distribuzione nelle sale, porta a paradossi antistorici come il gran rifiuto da parte del Festival di Cannes, anche quest’anno, di tutti i titoli prodotti da Netflix e simili.

Ma certo sostiene una struttura complessiva che s’avvantaggia dei passaggi in sala, e che proprio nelle sale intercetta ancora un discreto pubblico. Dal 7 aprile nei nostri cinema c’è Tra due mondi, in originale Ouistreham, opera terza dello scrittore amatissimo dalle professoresse democratiche (e non solo: pure da me, che però in fondo sono una professoressa democratica) Emmanuel Carrère.

Prima c’erano stati un documentario (Retour à Kotelnitch del 2003) e un solo film di finzione (L’amore sospetto con Vincent Lindon, dal suo romanzo I baffi, uscito nel 2005): ma si parla, appunto, di più di 15 anni fa. Tra due mondi, presentato alla Quinzaine des réalisateurs dell’ultimo Cannes, è tratto da Le quai de Ouistreham, reportage della giornalista-scrittrice Florence Aubenas da noi uscito come La scatola rossa.

Come Yoga

Racconta della stessa autrice, nel film però chiamata Marianne (ancora Juliette Binoche), che, per indagare “con mano” il lavoro al tempo della crisi, s’infiltra in un gruppo di ragazze e signore che puliscono i traghetti che fanno scalo a Ouistreham, sulla Manica.

È un film bello, semplice, diretto, naturalmente a tesi ma senza pedanteria. C’è il senso di colpa dei ricchi (ma non troppo) e la retorica a proposito dei poveri che faticano a campare (ma non troppa). Ricorda un po’ il reportage-dentro-il-memoir dell’ultimo Yoga (da noi edito come tutti da Adelphi), cioè la parte in cui Carrère fa il volontario in un campo profughi in Grecia e che poi s’è scoperta essere, nella solita e pavloviana indignazione di qualche twittarolo con molto tempo libero, più romanzata rispetto a quanto veramente accaduto.

Memoirista

Che cosa c’entra lo star system, con tutto questo? È presto detto: Juliette Binoche, già lo dicevo e lo sapete pure voi, è una star; una star da sempre amata e diretta dai grandi autori (Godard, Kieślowski, Haneke, Carax, Assayas) e insieme patrimonio di tutti, qui molto credibile in un ruolo che addosso ad altre parrebbe incollato.

Ma anche Carrère è una star, è uno scrittore insieme intellettuale e pop che la gente al cinema, incredibilmente, la porta. E infatti Ouistreham in patria ha avuto buoni incassi, quelli che un film del genere da noi non farebbe manco a sognarseli. (C’è tuttavia pure da chiedersi: quale equivalente di Carrère avremmo, qui da noi? Forse Francesco Piccolo, scrittore e “memoirista” che lavora molto anche per il cinema. Ma vale lo stesso discorso: in Italia ci sarebbe pubblico sufficiente per un film di questo tipo, se mai un film diretto da Piccolo dovesse uscire?).

Storie sul lavoro

Tra due mondi, dicevo, è un film semplice, oggi si direbbe largo, non d’auteur come lo s’intende classicamente. È un prodotto medio – altro termine molto usato per definire il cinema francese – che sa ancora parlare con il pubblico e con le cronache dell’oggi.

E che, in un’industria e un mercato che sono assolutamente sani, sa pure fare botteghino: una specie di miracolo. In Francia esistono sistema e star system, e di conseguenza esiste ancora il modo di raccontare la realtà che, si perdoni il giochetto, non resta fuori dalla realtà, come troppo spesso avviene da noi.

Le storie di e sul lavoro, in particolare, sono un genere francofono a sé, vanno – in epoca recente – dai fratelli Dardenne a Laurent Cantet, e il genere continua oggigiorno a produrre ottimi esiti. Nelle nostre sale c’è ancora, almeno in qualche grande città, Full Time - Al cento per cento di Éric Gravel, in originale À plein temps, ritratto di una quarantenne (Laure Calamy, cioè l’adorabile segretaria Noémie di Dix pour cent: la serie sulle star ha prodotto star a sua volta) impiegata come capo-cameriera in un hotel di lusso e alle prese con gli scioperi che paralizzano Parigi, e la sua vita da pendolare.

E c’è anche Un altro mondo, ultimo capitolo della trilogia dello specialista del genere Stéphane Brizé con protagonista il feticcio Vincent Lindon (prima di questo La legge del mercato e In guerra), che analizza con tono quasi da inchiesta l’occupazione e la disoccupazione di oggi, e tutto ciò che umanamente ne consegue. È un cinema militante ma anche dialogante, accessibile, pensato per platee più grandi di quelle dei cinemini.

È un cinema che prevede l’esistenza del cinema stesso: con l’occhio sul reale, e gli scrittori, i registi, le star a metterlo in scena, a farlo combaciare con il nostro sguardo. Nell’era in cui queste storie sembrano non arrivare più a nessuno, è ancora una lezione da imparare.

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