Il presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, era riuscito, nei primi giorni dopo il tremendo choc del 7 ottobre, a mettere sotto tutela un Benjamin Netanyahu frastornato, accusato di essere uno dei responsabili della mancata vigilanza su Gaza, che ha agevolato la carneficina di Hamas. I due non si erano mai amati. Nel passato il premier più longevo di Israele si era schierato apertamente per Donald Trump e più in generale gongolava per la definizione che gli era stata appiccicata di essere «uno dei leader del partito repubblicano americano»: era il tempo del sovranismo trionfante sui due lati dell’Atlantico.

Un mese esatto fa, quella che sembrava una svolta a causa del grumo di Shoah consumato dal terrorismo. Gli ex duellanti che seppellivano l’ascia di guerra, dimenticavano i rancori personali in nome dell’amicizia storica dei rispettivi paesi. E della comune lotta contro un nemico che di tutta evidenza non aveva più in agenda una rivendicazione nazionale, ma si era pienamente inserito nella galassia jihadista grazie all’alleanza con la dorsale sciita capeggiata dall’Iran.

Ma Biden resta pur sempre un democratico e si era trovato nella posizione di forza per imporre, in cambio dell’aiuto, una serie di linee rosse da non valicare. Un Netanyahu inedito aveva abbandonato la postura arrogante e accettato la sottomissione. Si era impegnato a scatenare una reazione che non fosse una rappresaglia, a creare un gabinetto di crisi con generali non a lui così vicini, a risparmiare i civili, a non occupare Gaza, opzione peraltro invisa anche al suo esercito e alla popolazione.

Si era persino spinto a promettere che, a conflitto finito, si sarebbero analizzate le responsabilità comprese le sue. Il pronostico era quello di un leader sul viale del tramonto e che avrebbe avuto solo il tempo del riscatto militare prima del pensionamento. Forse in quella fase era convinto anche lui dell’ineluttabilità del suo destino.

Netanyahu non ci sta più

Poi qualcosa è cambiato. A poco a poco si è ripreso il pallino in mano sfogando il rancore per il suo ridimensionamento, culminato con il tweet notturno in cui accusava l’esercito e i capi dell'intelligence per la disfatta che ha permesso la carneficina, in seguito cancellato dietro la valanga di critiche. Contemporaneamente ha varcato tutte le linee rosse. L’ultima ieri. Ha dichiarato ad Abc news: «Ci assumeremo la responsabilità generale della sicurezza della Striscia di Gaza per un periodo indefinito una volta terminata la guerra con Hamas». Tradotto: è l’occupazione, un altro schiaffo a Joe Biden dopo aver invaso, colpito obiettivi civili, negato tregue umanitarie, sconfessato i generali persino sulla proposta di fornire carburante agli ospedali di Gaza.

L’atteggiamento decisionista (eufemismo) è la cartina di tornasole di una sua assoluta indisponibilità a farsi da parte quanto tacerà il cannone. Benjamin Netanyahu si sta giocando la carta della disperazione nella speranza di avere un futuro politico, dimostrando di essere un intrepido comandante in capo, lui che si era sempre vantato di non aver mai cominciato una guerra. Le incognite per realizzare l’arrischiato progetto sono infinite. Molto dipenderà dal destino degli ostaggi, dal numero di soldati sacrificati nella battaglia casa per casa, tunnel per tunnel, che comincia nel centro abitato di Gaza, dalla cattura o uccisione di Yahya Sinwar, il leader di Hamas nella Striscia. E infine dalla distruzione completa della stessa Hamas, obiettivo dichiarato e pressoché impossibile dato che molti leader stanno all'estero. Vasto programma e da giocatore d'azzardo per il soldato Bibi.

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