La sentenza della Corte suprema del Colorado ha portato all’attenzione del pubblico quello che ormai nei tribunali statunitensi è quasi un filone giuridico a sé: gli esposti presentati per evitare che Donald Trump finisca sulla scheda elettorale delle primarie repubblicane in quanto coinvolto nei fatti del 6 gennaio 2021.

Secondo questa teoria, il quattordicesimo emendamento della Costituzione americana impedirebbe la candidatura di Trump perché sarebbe stato coinvolto in una insurrezione.

La Corte suprema del Colorado ha convalidato questa ipotesi, ma secondo il sito specialistico Lawfare nel paese sono stati presentati ben trentacinque ricorsi simili nei tribunali dei cinquanta stati. Sei di questi già sono stati archiviati senza nemmeno venire discussi, come nel caso di New Hampshire, Rhode Island, Michigan, Florida e Minnesota.

In quest’ultimo caso, poi, i ricorrenti avevano chiesto che il segretario di stato locale lo rimuovesse dalle scheda con un decreto. Opzione politicamente esplosiva e impraticabile, e quindi non presa in considerazione. Altre volte, invece, sono stati proprio coloro che avevano presentato la richiesta in tribunale a ritirarla, prevedendo forse una sconfitta: è accaduto in California, Connecticut, Delaware, Idaho, Kansas, Utah, Oklahoma, Maine, Massachusetts, Montana, Pennsylvania e North Carolina. Infine, ci sono ancora dei casi pendenti: due nello stato di New York, poi altri singoli in Texas, Alaska, New Mexico, Wisconsin, Vermont, Virginia, South Carolina, West Virginia, New Jersey, Oregon e Wyoming.

Tutta questa lunga serie di ricorsi è stata liquidata con una battuta dal portavoce della campagna elettorale di Trump Steven Cheung che ha invitato le corti a “buttar via” questi esposti.

Anche quello che per il momento è andato in porto però, è congelato in attesa del praticamente certo ricorso alla Corte Suprema federale, dove l’orientamento prevalente non è solo conservatore (sei giudici su nove si possono ascrivere a una filosofia giuridica “originalista”) ma anche prudente, dato che al momento non c’è alcuna condanna per i fatti del 6 gennaio che riguardi Donald Trump e i precedenti, che riguardano il passato remoto (l’ultima sentenza sul quattordicesimo emendamento da applicare a una candidatura politica è del 1921), sono abbastanza favorevoli.

Il supremo tribunale però ha un ruolo che va ben oltre questi ricorsi, che possono comunque essere annullati d’imperio qualora la decisione dia ragione all’ex presidente. C’è anche la questione che riguarda l’immunità, ovvero se il presidente Trump fosse coperto da una sorta di “schermo legale” in virtù dell’essere il presidente in carica: il quesito è stato posto dal procuratore speciale Jack Smith, nominato dal dipartimento di Giustizia il 18 novembre 2022 per seguire le indagini sul tentativo di ribaltamento del voto da parte della Casa Bianca di allora.

La Corte ha accettato di prendere in considerazione il caso e di fissare come data per il processo il prossimo 4 marzo. Da parte del tycoon, i suoi legali hanno chiesto di spostare in avanti il procedimento, perché sarebbe a ridosso con il cosiddetto Supermartedì: il 5 marzo, infatti, ci saranno le primarie repubblicane in ben quattordici stati e verranno assegnati circa un terzo dei delegati che voteranno alla convention di Milwaukee, in Wisconsin, nel periodo compreso tra il 15 e il 18 luglio 2024.

Ostruzione

Infine, c’è ancora la cosiddetta «ostruzione di procedura pubblica», un reato istituito con la legge Sarbanes-Oxley del 2002, provvedimento che all’origine veniva applicato a quelle imprese che interferiscono con le indagini a loro carico. La legge è stata applicata contro uno dei manifestanti che ha fatto irruzione quel fatidico 6 gennaio e quindi si dovrebbe applicare anche a Trump come “mandante”.

La posizione della difesa, in questo caso, è che i manifestanti non avevano alcuna intenzione di colpire dei documenti ufficiali, assunto che l’accusa rigetta in quanto invece c’erano i voti dei grandi elettori che avrebbero potuto essere illegalmente distrutti. Anche in questo caso la Corte suprema deve dirimere la matassa, essendo implicata una legge federale.

Una grande responsabilità quindi per un consesso che gode di bassissima popolarità dopo le sentenze degli ultimi due anni che hanno abrogato la protezione federale del diritto all’aborto e ristretto le tutele legali per le minoranze etniche, i diritti della comunità Lgbtq+ e le regolamentazioni contro l’inquinamento.

Una situazione incandescente dove il parere dei giudici porterà a prese di posizione ancora più polarizzanti per i due maggiori partiti.

© Riproduzione riservata