Dieci anni fa la Primavera araba sorprese tutti. Un universo considerato geopoliticamente congelato si mosse all’improvviso. Regimi autoritari ritenuti perenni non si erano accorti che stavano cambiando le loro società. Tutti guardavano dalla parte sbagliata: la vera trasformazione avvenne nel profondo della cultura sociale. Le giovani generazioni arabe più istruite dei loro padri stavano attraversando una rivoluzione mentale. Il fattore cruciale fu la scomparsa della paura. Era lo stesso spirito del recente Hirak: le dimostrazioni di piazza algerine del 2019-2020 sospese solo per il Covid. Dieci anni fa, colti alla sprovvista, potenti apparati di sicurezza non furono in grado di reagire subito.

Lucio Caracciolo parlò di «un’ipnosi geopolitica» che aveva costruito la teoria dell’immobilismo arabo e che stava andando in pezzi. Regimi infrangibili dimostravano tutta la loro debolezza e si aprì una fase di grande speranza.

Come quella del 1989 europeo poi delusa, anche il 2010-2011 arabo è finito male, anzi in tragedia se si guarda alla Libia o alla Siria. Le giovani generazioni arabe non hanno rinunciato alla loro rabbia contro l’umiliazione ma forse hanno capito meglio che non bastano la auto-convocazioni spontanee e senza leader. Ci vuole ben altro per far cadere poteri radicati e violenti. Dieci anni dopo possiamo dire che il dicembre tunisino del 2010 è stato l’unico a dare un frutto.

Mohamed Bouazizi

Il 17 di quel mese il giovane ambulante Mohamed Bouazizi si diede fuoco per protestare contro la polizia che gli aveva sequestrato il carretto della verdura con il cui sbarcava il lunario. Il fatto avvenne lontano dalla capitale Tunisi, a Sidi Bouzid, una cittadina di 40mila abitanti nel centro del paese. Quel fatto di cronaca poteva passare inosservato, una fra le tante angherie che le polizie di tutti gli stati autoritari commettono contro cittadini inermi e poveri. Ma per una volta non fu così e la gente reagì. Certo il terreno era maturo: da un anno si scioperava a singhiozzo nelle miniere di Gafsa, poco distanti, dove si concentra buona parte della classe operaia tunisina. E poi bruciavano gli effetti della crisi del 2008 che aveva colpito duramente il paese producendo decine di migliaia di diplomés-chomeurs, come si dice da quelle parti: i giovani che hanno studiato e non trovano sbocco. Fatto sta che si manifestò una volta di più e fu la volta buona: risposero in molti da altre città dell’interno. Si formò come un corteo di manifestazioni che a un certo punto, anche senza capi, prese la direzione della capitale.

Per essere più precisi la folla, che andava ingrossandosi, voleva andare a Cartagine: il sobborgo dei palazzi del potere. Fu strano vedere che la polizia non si opponeva ma lasciava passare: qualcosa di eccezionale stava accadendo, uno di quei salti della storia che a viverli si resta folgorati per una vita. Un senso di terrore colse le classi dirigenti, abituate ad una sicurezza superba: in un attimo si sciolse il cemento della complicità che salda assieme chi detiene il potere. L’esercito fece sapere che non aveva nessuna intenzione di intervenire e iniziò la fuga disordinata.

Il presidente in fuga

Il presidente Ben Ali, poliziotto anche lui, scoprì sconvolto di non avere più difese e scelse l’esilio in Arabia Saudita. Per giorni le televisioni di tutto il mondo mandarono in onda i tesori della famiglia presidenziale che aveva abbandonato in fretta e furia: armadi letteralmente colmi di mazzette; garage pieni di auto di lusso e così via. Con enormi difficoltà ma anche con molta speranza e molto coraggio, la Tunisia non cedette al caos ma si ricostruì nuova e democratica. Anche gli islamisti accettarono la volontà popolare. Una nuova costituzione senza sharia; elezioni; alternanza: la povertà c’è ancora ma non si torna indietro.

Purtroppo il miracolo tunisino non si è ripetuto altrove. In Egitto piazza Tahrir accese per un breve momento il sogno pluralista: divenne un live show in diretta che 400 milioni di arabi seguivano notte e giorno. Le lingue si sciolsero: il bisogno di libertà era più forte. Fu notato un fatto unico: nessun slogan contro l’occidente, nemmeno contro Israele. Poi sono tornati i carri armati, la repressione, la tortura.

In Libia fu subito guerra civile, frammentazione, caos. In Yemen il conflitto tra due influenze – iraniana e saudita – ha schiacciato le attese dei giovani con una guerra infinita. In Siria solo stragi e distruzioni: il paese non esiste più. In Algeria e Iraq ancora si manifesta senza vedere luce in fondo al tunnel. In Libano la crisi economica ha travolto ogni aspettativa. Malgrado tanti fallimenti è andato in crisi l’alibi di società pericolose e l’equazione “o noi o il caos” propalata per decenni da regimi autoritari a cui un ambiguo occidente assetato di stabilità e petrolio ha scelto di credere.

La rivolta che verrà

L’anti-kamikaze Bouazizi ha fatto cadere un velo: la democrazia non è un lusso per paesi ricchi o un cedimento che favorisce il terrorismo: avviene esattamente il contrario e i due estremismi militare e jihadista, si nutrono a vicenda.

C’è da scommettere che alla prossima occasione il sollevamento dei ceti poveri e medi arabi assieme a quello dei giovani globalizzati e depauperati, ricomincerà più forte. Nessuno avrebbe creduto che il Sudan – paese quasi africano – avrebbe rilanciato l’anno scorso la sfida con successo. Malgrado gli sforzi delle classi dirigenti autoritarie arabe, non si può tornare allo status quo ante: la storia riserva sempre delle sorprese e ci insegna che tutto può cambiare.

© Riproduzione riservata