Goma, versante nord del Lago Kivu. È a pochi chilometri dalla capitale del Nord Kivu, quasi sul confine con il vicino Rwanda, che l’ambasciatore italiano nella Repubblica Democratica del Congo (Rdc), Luca Attanasio, ha perso la vita insieme a Vittorio Iacovacci, carabiniere, e Mustapha Milambo, autista del convoglio che avrebbe dovuto accompagnare il diplomatico in visita a un progetto del World Food Programme nell’area di Rutshuru.

A fare da teatro all’attacco di miliziani armati e al sospetto tentativo di sequestro finito nel sangue, il parco nazionale del Virunga, un tempo noto per la folta presenza di turisti occidentali in avvistamento degli ultimi gorilla di montagna e oggi tristemente al centro delle cronache per le ricorrenti violenze contro le guardie forestali, incaricate di contrastare lo sfruttamento illegale delle risorse naturali nella zona.

Nel gennaio di quest’anno, l’uccisione di sette ranger congolesi aveva fatto innalzare i livelli di allarme per la sicurezza nella riserva naturale: più in generale, da oltre due decenni il Nord Kivu e la regione orientale del paese sono attraversati da dinamiche di violenza politica, banditismo e insorgenza, che ne fanno una tra le aree più instabili del continente africano.

Sfollati e dispersi

Un recente rapporto del Kivu Security Tracker, elaborato dal Congo Research Group, ha stimato la presenza di oltre centoventi milizie nel nord-est della Repubblica Democratica del Congo, in un territorio compreso tra le provincie di Ituri, Nord Kivu, Sud Kivu e Tanganyka.

Un incremento sostanziale delle vittime – quasi 10.000, secondo i dati del monitoraggio, tra il 2017 e oggi – è stato registrato a partire dalla seconda metà del 2019, pur a fronte di una marginale riduzione del numero di attori armati non statali nell’area. Una parte rilevante dei 5,5 milioni di sfollati interni nel paese – il Congo-Kinshasa ospita il terzo più alto numero di Idp (internal displaced persons) al mondo – si trova in quest’area: nel primo semestre del 2020 oltre 600.000 sfollati sono stati registrati nella sola provincia dell’Ituri, a causa di conflitti a sfondo etnico e violenze indiscriminate nei confronti dei civili.

Gruppi armati

Se l’elevato numero di gruppi armati attivi nella regione nord-orientale del paese suggerisce una profonda frammentazione delle dinamiche di violenza politica e dell’attivismo di attori non-statali, l’area di Beni, nel Nord Kivu, costituisce uno dei principali centri di instabilità in Rdc. In questo territorio insiste la presenza delle Allied Democratic Forces (ADF). Nate dalla fusione di gruppi ribelli ugandesi intorno alla metà degli anni ’90 con l’obiettivo di rovesciare il regime di Yoweri Museveni, e progressivamente radicate in territorio congolese a partire dai primi anni 2000, le Adf sono emerse negli ultimi anni come una delle milizie armate più violente nella regione del Kivu.

Hanno adottato, soprattutto a partire dal 2014 e in risposta alle crescenti pressioni militari dell’esercito congolese, le Forces Armées de la République Démocratique du Congo (Fardc), una strategia di rappresaglie e attacchi sistematici alle comunità locali accusate di fornire informazioni ai militari, per dare prova dell’inefficacia delle misure di protezione dei civili adottate dalle autorità statali e dai peacekeeper della Monusco (Mission de l'Organisation des Nations Unies pour la Stabilisation en République Démocratique du Congo).

(AP Photo/Justin Kabumba)

Il legame con l’Isis

Nell’aprile del 2019 la rivendicazione di un attacco in Nord Kivu da parte dello Stato Islamico, contestuale alla proclamazione di una nuova wilaya in Africa centrale (Islamic State in Central Africa Province, Iscap), ha accreditato le ipotesi di una convergenza delle Adf (o di una fazione dissidente di queste) con l’organizzazione jihadista allora guidata dal califfo Abu Bakr al-Baghdadi, confermata secondo alcuni dalle evidenze di connessioni operative e finanziarie tra la leadership del gruppo e quella di Isis.

La moltiplicazione degli atti violenti delle Adf nei confronti dell’esercito, delle forze di stabilizzazione internazionale, degli operatori umanitari impegnati nella regione, e l’identità transnazionale di movimento di ispirazione salafita-jihadista, ne hanno fatto il principale e più noto attore armato in Nord Kivu. Ma non certo l’unico. Nella zona di Rutshuru le dinamiche di violenza politica ruotano in parte attorno alla presenza e all’attivismo delle Forces Démocratiques de Libération du Rwanda (Fdlr).

Hutu power

Le radici del gruppo armato affondano nelle vicende legate al genocidio in Rwanda nel 1994. Fu costituito originariamente di miliziani rwandesi espressione dell’hutu power, membri del regime al potere a Kigali e della milizia paramilitare Interahamwe che nel nord-est del Congo-Kinshasa avevano trovato rifugio per condurre attacchi contro il nuovo stato del Rwanda a guida tutsi. L’Fdlr resta uno dei principali gruppi armati in Nord Kivu, nonostante abbia perso negli anni gran parte dei suoi effettivi e abbia visto ridursi la capacità militare in ragione delle offensive dell’esercito nazionale.

Al comunicato con cui il governo ha attribuito ai miliziani del gruppo le responsabilità del tragico assassinio dell’ambasciatore Attanasio, la leadership politica dell’organizzazione ha risposto negando ogni addebito e anzi attribuendo le responsabilità della morte dei due italiani all’intervento delle forze di sicurezza congolesi.

La nascita e il consolidamento delle Adf e dell’Fdlr trovano una chiave di lettura nella storia recente del Congo e negli accadimenti occorsi nella regione dei Grandi Laghi nel corso degli anni ’90. Sostenute dal governo di Kinshasa nell’ambito di una profonda rivalità regionale con i regimi di Uganda e Rwanda, i due gruppi armati furono strumento di una proxy war regionale, che vedeva d’altro canto i presidenti di quei due paesi – Museveni e Paul Kagame – foraggiare i ribelli congolesi. L’appeasement regionale ha spinto il governo centrale della RDC ad adottare una postura crescentemente offensiva nei confronti delle milizie cui un tempo offriva supporto, favorendo lo sviluppo di forme di conflittualità nell’area, non di rado a sfondo etno-comunitario.

Economie di conflitto

I fenomeni di warlordism nel Kivu si sviluppano nell’ambito di sistemi di controllo territoriale fondati su economie di conflitto. Oltre che a ragioni di conflittualità con lo stato per il riconoscimento e il consolidamento dell’autorità di chefferies tradizionali, infatti, le violenze politiche dei gruppi armati nel nord-est della Repubblica democratica del Congo sono soprattutto correlate allo sfruttamento diretto o indiretto di risorse naturali e minerarie (prodotti ittici, avorio, carbone, rame, oro, nichel, cobalto, diamanti e soprattutto coltan, di cui il Congo-Kinshasa ospita le più ampie riserve mondiali), oggetto di traffico illecito oltre il confine orientale e rivendute sui circuiti ufficiali tramite reti transnazionali attive in Uganda, Rwanda e Burundi. Importante strumento di rivendicazione politica e di finanziamento dei gruppi armati sono i frequenti sequestri e i rapimenti a scopo di estorsione, non solo (e non tanto) di cittadini occidentali ma soprattutto di membri delle comunità locali.

Le condizioni di profonda insicurezza nella regione, deteriorate negli ultimi anni pur a fronte delle frequenti operazioni militari condotte dall’esercito nazionale contro i gruppi armati, testimoniano la difficoltà del governo centrale di affermare un controllo effettivo sui territori orientali del paese. Se tra i propositi del presidente eletto Félix Tshisekedi vi era una risoluzione definitiva delle cause di instabilità nel nord-est, il bilancio, a due anni di distanza, è a tinte fosche.

Nuove forme di cooperazione

Le divisioni negli organismi decisionali ed esecutivi tra gli uomini di Tshisekedi e i fedelissimi dell’ex presidente Joseph Kabila – ancora in posizioni chiave dell’amministrazione statale – hanno indebolito gli sforzi politici per la stabilizzazione del nord-est. L’attuale, fragile consenso parlamentare di cui gode il governo, a seguito della rottura della controversa alleanza politica con il partito dell’ex presidente, sembra aggiungere incertezza a una situazione di per sé profondamente volatile.

La presidenza di turno dell’Unione Africana nel 2021 potrà forse offrire a Kinshasa un’opportunità inedita per ripensare la governance securitaria, promuovendo nuove forme di cooperazione su base regionale e continentale e ristrutturando, al contempo, le logiche di gestione del potenziale minerario su cui si fonda la ricchezza del paese.

© Riproduzione riservata