C’è un aspetto paradossale nella mischia ucraina: Vladimir Putin sta usando mitologie e condotte cui sono ricorse le democrazie europee nel recente passato, con analogo cinismo e risultati non meno pericolosi.

Ammetterlo non vuol dire minimizzarle, condonarle o rinunciare a combatterle. Ma riconoscerle e trarne le conseguenze è un esercizio utile. Aiuta Europa e occidente a trovare un’identità politica meno sbiadita, e le motivazioni ideali senza le quali lo scontro con la Russia è solo un vecchio conflitto tra potenze, un braccio di ferro geopolitico nel quale non ha senso cercare ragioni o torti.

La crisi jugoslava

Per cominciare: quando Putin distingue tra nazione autentiche e nazioni inventate di sana pianta, imita gli europei al cospetto della crisi jugoslava. Secondo il presidente russo l’Ucraina non ha alcuna legittimazione storica, è un’invenzione di Lenin, un trucco bolscevico.

Nel 1991 anche l’Europa sosteneva che esistessero nazioni vere e nazioni fasulle. Secondo molti governi la federazione jugoslava non aveva alcun fondamento storico, era un accrocco costruito da Tito, un Frankestein serbo-comunista: e con questo pretesto è stato condannata a morte.

Come Putin, anche gli europei falsificavano la storia. L’idea jugoslavista era nata con il romanticismo, non con Tito un secolo dopo. Ed era entrata in crisi proprio per colpa del “socialismo autogestito”, quando è diventato chiaro che quel sistema era fallimentare.

Allora era cominciato un “si salvi chi può” praticato da gran parte delle nomenklature titoiste con una fulminea conversione al più aggressivo nazionalismo etnico (Putin è il prodotto di un percorso simile). Gli occidentali si erano divisi: l’amministrazione di Bush senior e rari europei, tra i quali in Italia il solitario Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, proponevano di salvare la federazione finanziando il progetto del liberale Ante Markovic; ma la gran parte dell’Alleanza atlantica incitava invece sloveni e croati a far fuori «la prigione dei popoli», vuoi per un’ossessione ideologica, vuoi per un sospetto.

Finita la Guerra fredda e con quella la possibilità di vendere bene il “non allineamento” al Fondo monetario, la Jugoslavia si sarebbe alleata con Mosca. Aveva vinto chi stimava più proficuo convivere con sei nano-repubbliche. Risultato: trecentomila morti, danni incalcolabili, una crisi tuttora inconclusa.

Autodeterminazione dei popoli

Putin riconosce le due autoproclamate repubbliche del Donbass nel nome di quel principio di autodeterminazione dei popoli cui gli occidentali non esitano ad appellarsi ogni volta che ne hanno convenienza.

L’ultima volta nel 2011, quando hanno riconosciuto l’indipendenza del Sud Sudan ricco di petrolio, ufficialmente anche per sottrarre quelle popolazioni alla feroce repressione di Khartoum. Due anni dopo una guerra civile ancora più feroce ha opposto i due clan egemoni della neonata repubblica, provocando almeno 50mila morti e 4 milioni di sfollati.

Beninteso, in un referendum i sud sudanesi avevano votato in massa per la secessione. Ma anche gli abitanti del Donbass e della Crimea oggi sceglierebbero in maggioranza l’indipendenza. Come pure gli abitanti di vari territori in diversi paesi europei, Sud Tirolo incluso.

Eppure il loro presunto diritto alla secessione non è riconosciuto, saggiamente, dalle democrazie liberali. Che semmai interpretano “diritto all’autodeterminazione” come diritto all’autonomia. Ma solo quando sono a rischio i propri confini.

Quando invece sono in gioco le frontiere altrui, siamo molto più elastici. Riconosciamo volentieri ai tartassati curdi il diritto a una patria, ma dimentichiamo che occorrerebbe smontare quattro stati (Iraq, Turchia, Iran, Siria).

Riusciamo a trovare simpatica perfino l’idea di una Catalogna indipendente, malgrado la metà dei catalani sia contraria. Abbiamo concluso la guerra del Kosovo, necessaria per evitare che lo scontro serbo-albanese dilagasse in una guerra balcanica, con un errore imperdonabile: il riconoscimento della repubblichetta di Pristina.

Se i confini non erano più inviolabili, come volevano gli accordi di Helsinki, anche Mosca ne avrebbe profittato: per cominciare a spese della Georgia, cui nel 2008 Putin ha strappato i territori di due province e li ha riconosciuti come repubbliche indipendenti.

All’epoca gli occidentali si sono limitati a proteste blande, il minimo per salvare le apparenze. Chissà che la memoria di quella inazione non abbia convinto Putin a forzare la mano.

Come prevede l’ex premier russo Dimitri Medvedev, americani ed europei stavolta saranno più vocali, ma passata la fase dei proclami e delle minacce «torneranno da noi per parlare di sicurezza strategica e di stabilità».

Lo “scontro di civiltà”

Il conflitto tra Ucraina e Russia oppone una democrazia, sia pure assai imperfetta, a un’autocrazia. Ha natura politica ma Putin lo racconta come “scontro tra civiltà”: «il mondo russo», radicato nell’identità etnica ed eternamente minacciato di sterminio, contro gli aspiranti sterminatori e i loro alleati occidentali.

Travestire un conflitto che ha sostanza politica in un duello mortale tra una civiltà e il suo opposto barbarico è l’imbroglio cui sono ricorsi non solo i regimi speculari serbo e croato quando si sono mossi guerra, ma molti europei: per giustificare gli aiuti a Zagabria l’hanno proclamata paladina di un occidente liberale e cristiano contro il “serbo-comunismo” di Belgrado (trent’anni dopo la Croazia è nella Nato ma resta una singolare “democratura”, tuttora governata da quel Hdz nato dalla confluenza di vecchi titoisti riciclati ed ex esuli filo-ustascia).

La tesi dello “scontro tra civiltà” è stata applicato dagli europei durante la successiva guerra di Bosnia per esimersi dall’intervenire a difesa degli aggrediti, i musulmani (se il conflitto era il prodotto di odi atavici, radicati nella storia e nelle opposte culture, tutti erano colpevoli). 

Ha ispirato un saggio di straordinario successo, “The Clash of civilizations” di Samuel Huntington, che trae spunto proprio dai malintesi eventi bosniaci. E, dopo l’11 settembre, ha orientato le opinioni pubbliche occidentali a leggere la vocazione di una “civiltà” e di una religione a noi nemiche negli attacchi organizzati dai seguaci di ideologie grossomodo classificabili nella categoria “islamo-fascismo”.

Difendere i diritti

Putin giustifica l’invasione del Donbass con il rischio di massacri sospeso sulla testa degli abitanti russofoni. Cita in proposito l’incendio del palazzo dei sindacati a Odessa, attribuito ai nazionalisti ucraini, e la conseguente morte di 41 persone. Considerando la ferocia di cui hanno dato prova nel mondo i suoi soldati, Putin pecca di strabismo.

Ma in forme più democratiche un vizio analogo è assai diffuso in occidente, dove un liberalismo di facciata si fa cieco e sordo quando sono in ballo i diritti umani di stranieri non bianchi.

L’Italia ha un ex premier che si è prodotto in salamelecchi per il saudita Mohammed bin Salman, per l’egiziano Abdel Fattah al Sisi, senza suscitare particolare ribrezzo nel paese. Altre nazioni europee non sono da meno.

Però c’è un’Europa ancora sensibile al tema. Tre giorni fa Bbc world ha avuto il coraggio di aprire il suo sito online con la notizia di due migranti arabi gettati in mare dalla guardia costiera greca e affogati.

Più spesso travestite da omissione di soccorso, queste pratiche omicide cominciano a non essere più rare sui confini europei. Sarebbe paradossale se gli occidentali si muovessero per difendere le frontiere dell’Ucraina e dimenticassero le nequizie che accadono sulle frontiere loro. Ma non dovremmo sorprenderci: c’è un po’ di Putin anche nel dna dell’occidente. Lo scontro con Mosca offre l’occasione per eliminare quei geni.

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