La globalizzazione vive sui mari, specialmente sugli oceani. Da tempo è finita l’epopea dei vecchi mercantili: il 95 per cento del commercio globale avviene mediante centinaia di container caricati su supertanker sempre più grandi e automatizzati, con l’equipaggio ridotto al minimo. Grazie al maggior peso dell’Asia nella produzione manifatturiera, le vie marittime predominanti non sono più atlantiche ma quelle che connettono oceano Pacifico e Indiano.

I cinesi vi hanno costruito la definizione marittima della “belt and road initiative”. La geoeconomia ha trasformato la spazio Indo-Pacifico in un’entità a sé stante, fulcro del gioco di potere tra le due potenze marittime o talassocrazie: l’esistente (gli Usa) e l’emergente (la Cina). In termini geostrategici l’accesso ai mari che Washington già possiede è divenuto una priorità anche per Pechino.

Spazio indo-pacifico

L’invenzione teorica dell’Indo-Pacifico si deve a indiani e giapponesi a cui presto si sono associati americani e australiani fin dalla sua prima versione: il Quad, o dialogo quadrilaterale di sicurezza iniziato nel 2007, concepito come modo per resistere all’espansionismo dilagante del gigante asiatico. Tanto dura fu la reazione di Pechino che l’anno successivo l’Australia si ritirò dal Quad per timore di compromettere le sue relazioni. Occorre attendere il 2013 perché un nuovo premier australiano inserisca il concetto di spazio indo-pacifico nel Libro bianco della difesa nazionale.

Nel 2018 il Quad si rimette a funzionare con una nuova veste. L’Australia ha cambiato politica preoccupata dalla corte serrata che Pechino sta facendo ai suoi alleati storici, come Vanuatu o le isole Fiji, che teme la strangoli. Il porto di Darwin viene aperto alle navi da guerra Usa e ai Marines. Con l’amministrazione Obama (che è nato alle Hawaii e ha una sensibilità particolare per il Pacifico) il pivot to Asia diviene definitivo.

Mentre la Corte permanente di arbitrato dell’Aja dichiarava nel 2016 «senza fondamento» le rivendicazioni cinesi su diverse isole del mar della Cina, Pechino aveva già trasformato sette scogliere di barriera corallina in piattaforme militarizzate, con piste per atterraggio per i jet. Nel maggio del 2018 il Pacific Command Usa viene significativamente ribattezzato Indo-Pacific. Inizia una gara di nervi e di resistenza tra le due marine militari, con le navi americane che passano poco distanti dalle isolette cinesi o nello stretto di Taiwan per sottolineare di non riconoscere le 12 miglia marine di acque territoriali cinesi attorno a esse. La posta in gioco di tale prova di forza è il diritto di libero accesso al mare.

Lo spazio indo-pacifico è allo stesso tempo una mappa mentale, una rotta commerciale ed energetica e un’alleanza militare. Le tre dimensioni contraddistinguono una vastissima area per lo più marina, che va dal medio oriente fino alle Hawaii, dove si fronteggiano le due grandi potenze attuali. In molti protagonisti che gravitano dentro tale immensità la preoccupazione è cresciuta. C’è chi vorrebbe limitare, contenere e creare contrappesi alla potenza cinese, integrandola in un concerto di relazioni. C’è invece chi vorrebbe sbarrarle decisamente la strada. Gli Stati Uniti rimangono ancora dominanti ma la Cina avanza. Esistono varie versioni di Indo-Pacifico e alcuni pensano che l’ossessione per la sfida cinese spinga molti ad assumere quella americana, eccessivamente militare mentre ne preferirebbero una più dialogica. Altri stati coinvolti tentano di influenzare il duopolio sino-americano con iniziative di equilibrio.

Le isole contese

Il fatto è che la Cina si sente alle strette nel suo mare che considera la propria area di pertinenza. Non si tratta solo del problema di Taiwan e della politica di “una sola Cina”. Un po’ come accade con la Turchia nel mar Egeo, anche Pechino sente il problema per cui alla propria piattaforma continentale non corrisponde una proporzionata area di esclusività marittima. I paesi attorno infatti sono troppo vicini alla costa cinese per offrire tale ampio respiro. Ecco perché i litigi sulle isolette (talvolta dei veri e propri scogli corallini) divengono così importanti, sia in termini di acque territoriali che di zona economica esclusiva. Il contenzioso sulle isole Curili e Senkaku fa parte di uno schema di frizioni continue. In altre parole: nel mar cinese si è troppo addossati e non c’è abbastanza spazio per tutti. Da lungo tempo la Cina ha posto il tema ai paesi vicini, facendo mille pressioni e mille promesse, con il solo risultato di aumentare l’apprensione di tutti, salvo forse che per le Filippine di Rodrigo Duterte.

Mentre le sue ambizioni sono divenute globali, per la Cina rivendicare isole, isolette o semplici sassi emersi diviene una priorità. Guardando una cartina si può notare come Pechino si percepisca “ostacolata” dalle catene degli arcipelaghi che la circondano come Giappone, Filippine, Borneo o isole Marianne, senza considerare i paesi che insistono sugli stessi mari, come il Vietnam. Secondo Pechino tutto questo è un freno, un impedimento al rapido accesso all’oceano Pacifico dove invece gli americani sono stabiliti da decenni. L’accordo commerciale di libero scambio (Rcep) fondato a fine 2020 tra dieci paesi dell’Asean più Cina, Australia, Giappone, Corea del Sud e Nuova Zelanda, è stato presentato come un grande successo cinese e una svolta del commercio globale. Mentre gli Stati Uniti si ritirano dagli accordi multilaterali, Pechino diviene protagonista.

Paradossalmente il Rcep non è stata un’idea cinese ma di alcuni paesi dell’Asean e soprattutto del Giappone, dopo che gli Usa si erano ritirati dal trattato di libero commercio del Pacifico. Aderendo, la Cina ha scelto di lanciare un messaggio distensivo a tutta l’area per controbilanciare l’influenza americana.

Collana di perle

Nell’oceano Indiano Pechino aveva già iniziato a distendere la cosiddetta “collana di perle”: porti a uso duale (commerciale e militare) lungo le coste dei paesi amici, in primis il Pakistan. Erano i prodromi delle attuali vie della seta marittime e già impensierivano Delhi. Al termine della collana di perle, ieri come oggi, c’è il Pireo e domani forse un porto italiano.

Per reggere il confronto sul mare, la Cina ha approfittato di ogni opportunità che le veniva offerta, come ad esempio l’operazione Atalanta di antipirateria nel golfo di Aden e nell’oceano Indiano occidentale, davanti alle coste somale. Tra il 2008 e il 2018 ha fatto turnare circa 100 navi da guerra, offrendo un training a grandezza naturale alla propria marina militare che ancora possiede poca esperienza. In seguito è stata aperta la base navale a Gibuti, la prima soltanto a scopi militari.

Nel contempo la marina cinese si è ammodernata aumentando la sua capacità fino a 350 battelli di varia natura, contro i 300 degli Stati Uniti. Il numero non deve ingannare: gli americani sono ancora avanti per esperienza, formazione, tecnologia e stazza, ma ormai Pechino è a un passo.

Secondo gli Usa la strategia indo-pacifico include la partecipazione anche di Francia e Indonesia. Pechino ha reagito accusando Washington di voler ripetere lo schema della Guerra fredda, una sorta di riedizione della Nato in versione asiatica. La Francia vi partecipa basandosi sul diritto che le danno i territori d’oltremare dell’Oceania: 1,6 milioni di cittadini e 9 milioni di km quadrati di zona economica esclusiva francese (Wallis-et-Futuna, Nuova Caledonia, Polinesia francese oltre la Réunion e Mayotte nell’oceano Indiano).

Anche in Asia si inizia a mormorare contro il “colonialismo” cinese fatto di imposizioni commerciali e di ricatti finanziari e tecnologici (vedi il 5G). Alcuni sostengono che, come in Africa, la Cina inizia regalando, poi passa ai prestiti per infine divenire un creditore troppo esigente. Anche l’ex vicepresidente americano Mike Pence aveva fatto dichiarazioni in tal senso, smentendo precedenti affermazioni dell’ex segretario alla difesa Usa James Mattis, che aveva assicurato: «Non obbligheremo nessuno a scegliere tra noi e la Cina».

Per ora l’irritazione di Pechino per tali atteggiamenti, incluse le contromosse americane, ha avuto come effetto un aumento della tensione con l’India: la scazzottata generale (fortunatamente senza uso di armi) tra soldati cinesi e indiani nella zona di Ladakh del 15 e 16 giugno 2020 ne è la prova. Nuova Delhi si sta rendendo conto che la precedente politica di buon vicinato mediante l’ignorarsi a vicenda non funziona più.

Australia e Giappone

Sempre a fine 2020, Australia e Giappone hanno firmato un accordo militare di accesso ai reciproci porti, che rafforza l’interoperabilità militare e permette di stazionare le proprie forze sul territorio dell’altro. La reazione di Pechino non si è fatta attendere con una dichiarazione piccata del ministero degli Affari esteri. In Giappone non si parla più di ritiro delle forze americane stazionate a Okinawa e in altre basi (57mila uomini), considerate un utile deterrente mentre anche Tokyo sta rafforzando la sua marina militare. Tutta l’area della piattaforma marittima giapponese ha cambiato segno: prima la minaccia veniva da settentrione, cioè dalle propaggini orientali dell’Urss con le basi della marina sovietica.

Ora il rischio viene dal mar Cinese meridionale, inclusa la minaccia della Corea del Nord che Tokyo prende molto sul serio. Di continuo aerei militari e navi cinesi sfiorano le acque giapponesi o entrano nello spazio aereo, costringendo a un permanente lavoro di contenimento. Di altro segno la risposta delle Filippine, che stanno attuando una politica diversa, accedendo alle richieste cinesi e sospendendo i contrasti giuridici sui contenziosi marittimi, come ad esempio quello sulle isole Spratly, reclamate anche dal Vietnam che persiste nelle proprie rivendicazioni.

Sui media internazionali le polemiche fervono. Molto si scrive su Pechino che avanza pretese di potenza globale con atteggiamento imperioso: non gradisce interferenze su Taiwan o Hong Kong; non accetta critiche sulla gestione delle minoranze interne tibetane o uigure; spinge sui contenziosi marittimi; crea isole artificiali; fa sentire all’India la sua forza; stabilisce graduatorie nelle relazioni in base alla belt and road initiative o ad altri vettori di penetrazione in Africa e così via.

Dall’altra però va detto che la Cina sostiene ancora il multilateralismo, mentre gli Usa se ne sono allontanati (molte agenzie dell’Onu sono dirette da cinesi); è favorevole agli scambi commerciali con tutti; firma accordi aperti anche con potenziali avversari; offre il suo aiuto come nel caso del vaccino anti Covid. Molto sembra confermare che la politica di Pechino non sia immediatamente leggibile in occidente.

 

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