L’ecumenico viaggio di Leone tra Turchia e Libano e i dilemmi del mondo ortodosso

Leone XIV sta per affrontare il primo viaggio internazionale: sei giorni, dal 27 novembre al 2 dicembre, in Turchia e in Libano, paese biblico e parte della “terra santa”. L’interesse è indubbio, per due scenari: la situazione nel Vicino oriente e i rapporti tra i cristiani, in particolare ortodossi, sullo sfondo delle guerre in Ucraina e a Gaza. I passi del pontefice saranno poi confrontati con quelli di papa Francesco, ma bisogna ricordare che in tempi recenti i pontefici viaggiano ormai da un sessantennio e che Leone è il quinto papa a recarsi nella regione. Prevost tra l’altro ha voluto subito far capire due cose: si sente un successore dell’apostolo Pietro – piuttosto che di un pontefice o dell’altro, cosciente che «i papi passano» – e non ama il protagonismo, nocivo per chiunque abbia responsabilità nella chiesa. Per questo sottolinea la tradizione papale, senza alcun personalismo e in una dialettica normale tra la continuità, che è ovvia, e la discontinuità, che è invece molto più interessante da decifrare. Leone riceve Abu Mazen, messaggio a Israele sulla soluzione dei due Stati Dal concilio Sul viaggio si staglia un anniversario davvero storico: il diciassettesimo centenario del concilio di Nicea (oggi Iznik, per l’appunto in Turchia). Qui dal 20 maggio al 19 giugno del 325 vennero convocati dall’imperatore Costantino, per la prima volta, tutti i vescovi del mondo abitato (in greco oikouméne), almeno idealmente. Nella cittadina, non distante dall’attuale Istanbul, ne arrivarono più di duecentocinquanta, soprattutto dall’oriente, un numero considerevole. La novità dell’iniziativa era indubbia, e quel primo concilio – il Niceno II venne celebrato nel 787, ultimo riconosciuto dalle chiese sia d’oriente che d’occidente – resta un avvenimento capitale. L’assemblea, guidata dall’imperatore e dai suoi consiglieri, stabilì infatti la regola di fede che nel 381 sarà poi completata dal concilio Costantinopolitano I e diverrà il Credo di quasi tutti i cristiani: anche questa una prima volta. Alle celebrazioni previste per ricordare il concilio, Bartolomeo, il patriarca ortodosso di Costantinopoli, aveva invitato papa Francesco, ma l’ultima malattia e la morte del pontefice hanno vanificato il progetto. Eletto l’8 maggio, Prevost non ha voluto aggiungere subito il viaggio – dai risvolti ecumenici complicati – alla sua agenda. Per celebrare l’anniversario si è dunque profilata come ultima data possibile la festa, che ricorre il 30 novembre, di sant’Andrea, patrono di Costantinopoli. Nello scenario dei rapporti all’interno del mondo ortodosso, surriscaldato dalla tensione tra i patriarcati di Costantinopoli e di Mosca per la guerra in Ucraina, la preoccupazione di Roma – e soprattutto di papa Leone – è sottolineare la portata ecumenica più generale del viaggio, non solo il rapporto con Costantinopoli. Così, dopo l’arrivo nella capitale turca con le visite al mausoleo di Atatürk e al presidente Erdoğan, largo spazio è previsto per la commemorazione di Nicea e gli incontri con i capi delle diverse chiese cristiane, dove tuttavia sono prevedibili assenze. Celebrata dalla vigilia, la festa di sant’Andrea sarà aperta da una preghiera nella cattedrale armena e solennizzata da una “divina liturgia” nella chiesa patriarcale. Subito dopo, lo stesso giorno, Prevost raggiungerà Beirut. E anche in Libano – dove il papa visiterà ben quattro località, oltre la capitale – appare centrale la dimensione ecumenica e interreligiosa, insieme al sostegno al paese. Da Wojtyła a papa Leone: il summit per la pace è qui, al meeting interreligioso di Sant’Egidio L’importanza di Costantinopoli La storia spiega l’importanza nel mondo ortodosso di Costantinopoli, dove nel 357 l’imperatore Costanzo II fa arrivare le reliquie dell’apostolo, fratello di san Pietro, e accompagna in questo modo la crescita della città imperiale inaugurata da Costantino nel 328. Andrea, il “primo chiamato” (in greco protókletos) da Gesù, diviene allora il patrono della «nuova Roma». A definire così la città è il concilio del 381, che nel terzo canone decreta per il vescovo di Costantinopoli «il primato dell’onore dopo quello di Roma». Dall’età tardoantica la divaricazione culturale e religiosa tra le due Rome si accentua sempre più, finché nel 1054 la frattura si consuma con reciproche scomuniche. Solo l’avvicinamento tra il patriarca Atenagora e Paolo VI – che nel 1964 si incontrano per la prima volta a Gerusalemme – rende possibile nel 1965 il superamento delle scomuniche e un rapporto nuovo tra le due chiese che si dichiarano «sorelle». Nei decenni si moltiplicano gli incontri, con lo scambio di visite ad alto livello in occasione delle feste dei rispettivi santi patroni: il 29 giugno Pietro e Paolo, il 30 novembre Andrea. Se oggi le relazioni tra Roma e Costantinopoli sono buone, il mondo ortodosso con i suoi trecento milioni di fedeli sta invece attraversando nuove drammatiche fratture. Dopo il millennio bizantino (dal quale nascono l’evangelizzazione della Russia e l’ideologia di Mosca come «terza Roma»), ortodossi e cristiani orientali – pur divisi tra loro in chiese e riti diversi – vengono messi a dura prova: dall’oppressione ottomana, dal genocidio armeno, dal settantennio delle persecuzioni comuniste e dall’esodo forzato dai paesi del Vicino e Medio oriente. Emorragia solo in parte compensata da un’importante diaspora che mantiene vive e diffonde in diversi paesi occidentali le ricchissime tradizioni dei cristianesimi orientali. Crollato il comunismo sovietico ed europeo, nonostante le guerre nei Balcani, in Medio oriente e in Siria, con gravi persecuzioni e nuovi martiri, nel 2016 il patriarca Bartolomeo riesce a riunire a Creta un concilio panortodosso. Ma l’assemblea – ideata da quasi un secolo e preparata sin dal 1961 – di fatto fallisce, per il boicottaggio del patriarcato di Mosca che trascina con sé quello di Antiochia e le chiese di Bulgaria e di Georgia. Leone vola alto, ma la politica non lo ascolta La guerra fratricida Poi dal 2022 la guerra fratricida scatenata in Ucraina dall’aggressione russa, sostenuta e benedetta dal patriarca Cirillo, ha aggravato le divisioni tra gli ortodossi. Che da almeno due secoli soffrono per un legame asfissiante con il nazionalismo, anche sotto il giogo comunista: è l’eresia del filetismo (in greco, “tribalismo”), pur condannata nel 1872 da un concilio a Costantinopoli. Proprio l’ultimo trentennio, con le guerre e l’affondamento del concilio di Creta, lo dimostra. L’ortodossia – scrive Jean-Arnault Dérens nel suo coraggioso Géopolitique de l’orthodoxie (Tallandier) – ha bisogno di «rompere con tutte le forme di collusione tra la chiesa e i poteri, tra la fede e i nazionalismi». A raccontare ora questi anni dal punto di vista di Costantinopoli, in un libro dove la passione si mescola alla tradizione ortodossa (Libres enfants de Dieu, Les Éditions du Cerf), è Emmanuel Adamakis, metropolita di Calcedonia. Cretese come Tito, il destinatario di una delle lettere attribuite a san Paolo, il vescovo rievoca la restituzione delle reliquie di san Tito voluta da Paolo VI nel 1966, e scrive di aver cominciato a capire allora, bambino di sette anni, che è buono «uscire da sé stessi», per «andare incontro al Dio vivo e servirlo servendo gli altri».