A ogni morte di papa il tema più ricorrente è ovviamente quello dei papabili. Per limitarsi all’ultimo trentennio, dei possibili successori del papa polacco s’inizia a parlare una decina d’anni prima della sua morte. Ma parecchi candidati vengono meno – o escono di scena per l’età – prima della scomparsa di Karol Wojtyła.

La rinuncia di Joseph Ratzinger, annunciata ma che coglie di sorpresa quasi tutti, ha tra i suoi effetti quello di limitare il cosiddetto “toto-papa” ai giorni della sede vacante. Questi però vengono raddoppiati proprio dalla dichiarazione del pontefice, il quale l’11 febbraio 2013 comunica che avrebbe lasciato il pontificato alle ore 20 del 28 febbraio successivo.

Durante il pontificato di papa Francesco di possibili successori si inizia a trattare già nel 2018, quando viene lanciato il Red Hat Report, dove il “berretto rosso” è ovviamente quello dei cardinali. Poco più tardi, nel 2020, si pubblicano – con lo stesso titolo sul «prossimo papa», The Next Pope – due libri di tendenza conservatrice.

Quello del giornalista inglese Edward Pentin raccoglie una ventina di profili di candidati, alcuni ormai impossibili per ragioni di età. Il libro dell’intellettuale statunitense George Weigel è invece una sorta di programma del prossimo pontificato che l’arcivescovo di New York, il cardinale Timothy Michael Dolan, dona ai suoi confratelli, suscitando approvazioni ma anche malumori.

Tutto può succedere

Lo stesso papa Francesco ha sfiorato in più occasioni il tema con leggerezza, accennando per due volte al nome del successore – secondo lui Giovanni XXIV – e rispondendo nel 2023 alla rivista spagnola Vida Nuev»: con un collegio cardinalizio così «rimescolato» (da lui stesso) «può succedere qualsiasi cosa».

Ma dopo l’ultimo ricovero i suoi sostenitori più oltranzisti, anche cardinali, hanno drammatizzato, dichiarandosi scandalizzati che si parlasse della successione papale, quando invece si è trattato di un normale e doveroso esercizio di responsabilità.

Dopo la morte del pontefice il tema si è imposto con forza, sui media e tra gli stessi cardinali, che sono un numero mai raggiunto prima. Ben 252 viventi, anche se non pochi molto avanzati negli anni, tra i quali gli elettori sono 135 – o 136, se il cardinale Angelo Becciu voterà –non avendo ancora compiuto ottant’anni.

Per quasi mezzo secolo, dal 16 ottobre 1978, i pontefici non sono stati più italiani. Così oggi alla ribalta non è il nodo del “papa straniero” – secondo la locuzione ripresa dalla politica nostrana – perché il quesito è se a essere eletto sarà di nuovo un italiano: non tra i 53 viventi ma all’interno della ventina di elettori.

Capacità d’ascolto

Tra gli italiani un nome spicca su tutti: quello del settantenne Pietro Parolin, che è stato il secondo segretario di stato di papa Francesco, succedendo nella carica al salesiano Tarcisio Bertone già il 31 agosto 2013, poco più di cinque mesi dopo l’elezione dell’arcivescovo di Buenos Aires. Anche se a causa di un intervento chirurgico il prelato vicentino ha assunto la carica soltanto dal 15 ottobre dello stesso anno.

Ma chi è Parolin? «Già segretario di stato», certo, la cui carica è decaduta con la morte del pontefice. Ma soprattutto un uomo mite e gentile, capace di ascoltare a lungo e con attenzione i suoi interlocutori, interrogandoli anche in francese, spagnolo e inglese. Poi un prete timido e un prelato poco appariscente. Infine un diplomatico eccellente e aperto, ultimo erede della filiera rappresentata negli ultimi decenni dai cardinali Agostino Casaroli e Achille Silvestrini.

Nato nel piccolo paese di Schiavon il 17 gennaio 1955 da Luigi, un commerciante, e dalla maestra Ada Miotti, entra quattordicenne in seminario ed è prete dal 1980. Per due anni viceparroco, studia a Roma nella scuola diplomatica vaticana. Si laurea in Gregoriana e dal 1986 presta servizio nelle nunziature – le ambasciate della Santa sede – in Nigeria e in Messico. Passa poi nella seconda sezione della Segreteria di stato, il ministero degli esteri del papa, dal 2002 come sottosegretario.

Il suo campo d’azione principale sono le relazioni, difficili e problematiche, con il Vietnam e la Cina. Nel 2009 arriva la nomina come nunzio in Venezuela, un altro paese difficile, che comporta la promozione ad arcivescovo, consacrato da Benedetto XVI. Ma è anche un allontanamento da Roma – promoveatur ut amoveatur – ed è questo a spiegare l’ascesa rapidissima: una sorta di risarcimento che lo trasforma in segretario di stato e cardinale nel primo concistoro di papa Francesco.

Ombre cinesi

Un curriculum dunque di prim’ordine, quello di Parolin, del quale però non pochi confratelli sottolineano ora la debolezza e l’eccessiva identificazione con il pontefice appena scomparso. Da una parte si evocano le ombre cinesi dell’accordo – provvisorio e di fatto segreto – con la Repubblica popolare sulla nomina dei vescovi, dall’altra l’acquiescenza di fronte allo svuotamento di poteri della Segreteria di stato e al cosiddetto processo Becciu.

Altro elemento che potrebbe indebolire la candidatura di Parolin è la circostanza che solo tre segretari di stato su 53 sono stati eletti papi: due di seguito tra il 1655 e il 1669 – Fabio Chigi (Alessandro VII) e Giulio Rospigliosi (Clemente IX) – e poi Eugenio Pacelli (Pio XII), eletto alla vigilia della seconda guerra mondiale. Ma i suoi sostenitori fanno notare che papa Francesco ha sempre ripetuto che siamo in una terza guerra mondiale «a pezzi». Basterà?

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